La voce di Edith Eger, dalla sua casa di Jella in California, arriva giovane e ferma. Di tanto in tanto l’attraversa un sorriso incoraggiante e persuasivo. Dev’essere lo stesso che usa, da psichiatra, per convincere i suoi pazienti ad aprirsi con lei. Solo una volta la voce rallenta senza incrinarsi. Accade quando le si chiede quale sia stato il momento più difficile dei suoi 90 anni, uno dei quali trascorso, tra i 16 e i 17, ad Auschwitz: «Fu quando Mengele indicò a mia madre la fila a sinistra e io provai a seguirla. Me lo impedì afferrandomi: “Tua madre sta solo andando a fare una doccia, la rivedrai tra poco”. Dopo, nella sezione femminile a Birkenau domandai a una donna: “Quando?”. Mi indicò il camino: “Vedi le fiamme? Tua madre sta bruciando là dentro”. Abbracciai mia sorella Magda, che era con me. Mi risuonano ancora le sue parole: “Lo spirito non muore mai”».
Un attimo dopo la voce riprende energia. Parla di libertà, il tema del suo libro, La scelta di Edith (Corbaccio), nel luogo geometrico della prevaricazione: «Anche a Gunskirchen, un sottocampo di Mauthausen, dove ci avevano trasferiti, ho avuto la possibilità di scegliere: stavo per morire di stenti, così davanti a scene di cannibalismo attorno a me, parlai con Dio. Vidi un ciuffo d’erba e decisi di provare a sopravvivere mangiando quella, di non toccare mai carne umana. Possiamo sempre scegliere, lo ripeto sempre ai miei pazienti».
Sembra impossibile parlare di Dio e con Dio sull’orlo di quell’abisso e dopo, ma la voce di Edith non esita: «Mi chiedono: “Dov’era Dio mentre tua madre moriva?” Era con noi, con lei. Il mio Dio è un Dio d’amore, non è stato lui a uccidere i miei genitori, sono stati gli uomini. Ho provato rabbia, poi ho capito che scegliere di non covare la vendetta è decidere di non permettere a chi ti ha fatto del male di abitare per sempre nel tuo corpo. Voglio vivere “per” qualcosa non “contro”».
Non che ci si arrivi pacificamente: «È stato un lungo percorso, sono dovuta tornare ad Auschwitz, per riattraversare il mio dolore, e liberarmi almeno un po’ del senso di colpa di essere viva: quando arrivai in America, senza soldi e senza sapere una parola di inglese (ancora oggi lo parla tradendo nella durezza delle “w” l’origine ungherese, ndr), ho nascosto il mio passato, volevo assimilarmi. A chi chiedeva di me rispondevo: “Sono quello che vedi in me”. Molti anni dopo, lavorando con i disordini da stress post traumatico dei reduci dal Vietnam, ho capito che c’era in me qualcosa di non elaborato: continuare a scappare non lo avrebbe risolto. Dovevo affrontarlo».
La strada era guardare nell’abisso del passato e risalirne, a costo di divorziare per un po’ e poi risposare lo stesso uomo: «Pensavo che non funzionasse la relazione con Béla e invece il problema era il vuoto dentro di me, su cui dovevo lavorare io perché nessun altro avrebbe potuto riempirlo da fuori. Quando conobbi mio marito, subito dopo la liberazione, in un sanatorio in Austria, mi conquistò con un salame ungherese e del formaggio. Ero affamata e mi bastò. Ma la fame non è amore, è dipendenza. La prima volta non ho scelto Béla, la seconda sì, prima ho dovuto capire che non si è pronti alla relazione con altri se non si fa pace con sé stessi».
Di quella presa di coscienza la dottoressa Eger ha fatto tesoro anche come professionista, nella terapia di coppia: «Mi piaceva pensarmi più come una guida che come una terapista: cercavo di far capire che le relazioni vivono di continue rinegoziazioni».
La paura non passa mai davvero: «Non la supererò mai del tutto: oggi mi spaventa questa America divisa, le teorie dei suprematisti mi dicono che dobbiamo fare il possibile perché la storia non si ripeta. Ma a 90 anni sono più giovane di 50 anni fa e felice: ho tre bisnipoti, la mia famiglia è la miglior vendetta contro Hitler. Mi sono sentita libera quando ho smesso di voler piacere a tutti, e, prima, quando in attesa della prima figlia, al medico che mi diceva di abortire perché ero ancora troppo debole per una gravidanza, risposi decisa: “Nella mia famiglia c’è stata abbastanza morte, metterò al mondo questa vita”». Marianne è nata sanissima, ora nonna, psicologa e moglie di un premio Nobel.
Intervista realizzata nel gennaio 2018, uscita sul numero 3/2018 di Famiglia Cristiana