Il dettato conciliare
sull’educazione
è molto chiaro
e non si perde
in divagazioni.
Punta sulla
costruzione
di relazioni
interpersonali
asimmetriche
all’interno
di ambienti saldi
e vivaci, come quelli
familiari, scolastici
e gruppali. Una
lucida riflessione
sulla società attuale
ci restituisce il senso
ancora valido
dell’educazione
all’amore.
Prima di approcciare l’argomento dell’educazione
all’amore, ritengo necessaria un’argomentazione
previa che collochi questo ambito
educativo entro quello più ampio dell’educare
oggi. A cinquant’anni dal concilio Vaticano II, parlare
di educazione cristiana significa rileggere con gli
occhi degli uomini e delle donne della post-modernità
la Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum
educationinis, per entrarvi in dialogo in una
sorta di ermeneutica che, alla luce di ciò che siamo
ora, ci conduca a comprendere, oggi, la nostra parte
in relazione al «diritto inalienabile (di tutte le
persone) a un’educazione che corrisponda al proprio
fine, convenga alla propria indole, alla differenza
di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro Paese
e insieme aperta a una fraterna convivenza con
gli altri popoli al fine di favorire la vera unità e la pace
sulla terra». Tutto il documento è pervaso dalla
certezza che si voglia e si debba educare, un compito
degli adulti verso i giovani, adulti ai quali è chiesta
«una certa formazione permanente» per espletare
al meglio questo atto generativo che “genera”
la persona alla propria responsabilità e libertà.
Certamente «educare non è mai stato facile, e oggi
sembra diventare sempre più difficile». I motivi
sono molteplici e non è questa la sede per esaminarli
compiutamente ma di fatto, se educare significa
insegnare l’arte della vita, la passione per la vita come
promessa di bene, accogliere e sviluppare quel
bene che ciascuno porta in sé, va detto purtroppo
che non siamo più per nulla convinti che “esserci”
sia un bene. Siamo una generazione di adulti che
ha smarrito la voglia di vivere, adagiata
sul “nulla” dei propri capricci e delle
proprie pulsioni, incapace di accettare
le differenti stagioni della vita, paralizzata
in un eterno presente senza
prospettive, senza speranze. Come
può, questa, essere una generazione
capace di introdurre alla vocazione a
vivere? «L’unica reale possibilità di
riuscir (...)(ai nostri figli) di qualche
aiuto nella ricerca di una vocazione,
(è) avere una vocazione noi stessi, conoscerla,
amarla e servirla con passione:
perché l’amore alla vita genera
amore alla vita». Nessuno può dare
ciò che non ha in sé, «alla radice della
crisi dell’educazione c’è (...) una crisi
di fiducia nella vita6». Fa da sponda, a
questo cinismo nichilista, l’assenza di
un orizzonte che indichi la traiettoria
dell’andare, senza la quale i giovani
non sapranno mai che la vita è vocazione
a diventare ciò che si è.
La questione del fine sollevata dalla
dichiarazione conciliare non è, oggi,
di poco conto. La molteplicità di antropologie,
alcune delle quali insostenibilmente
tendenti ad annullare
ogni finalità nell’essere umano, avvalora
l’idea che non si possa, addirittura
non si debba educare: i figli troveranno
da soli, sceglieranno da soli chi
vorranno essere. Un’idea scellerata di
libertà che conduce a un’educazione
a-valoriale, che non vuole, perché in
realtà non sa più il “ciò per cui”. Il fine
dell’educazione cristiana è invece
l’uomo perfetto che abbia la statura
di Cristo (cf Ef 4,13).
In Lui trova senso un’antropologia
ricca, affascinante e desiderabile, capace
di svegliare alla fatica del camminare
verso una meta bella proprio perché
alta. Ben lo sapeva Giovanni Paolo
II, riconosciuto dai giovani come padre
ed educatore esigente e dunque
affidabile: «In realtà, è Gesù che cercate
quando sognate la felicità; è Lui
che vi aspetta quando niente vi soddisfa
di quello che trovate; è Lui la bellezza
che tanto vi attrae; è Lui che vi
provoca con quella sete di radicalità
che non vi permette di adattarvi al
compromesso; è Lui che vi spinge a deporre
le maschere che rendono falsa
la vita; è Lui che vi legge nel cuore le
decisioni più vere che altri vorrebbero
soffocare. È Gesù che suscita in voi il
desiderio di fare della vostra vita qualcosa
di grande, la volontà di seguire
un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire
dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi
con umiltà e perseveranza
per migliorare voi stessi e la società,
rendendola più umana e fraterna».
Alla luce della Gravissimum educationis
ho scelto di definire l’educare come
una relazione interpersonale asimmetrica
nella quale il soggetto educante
genera la persona alla libera accoglienza
della promessa che il dono della
vita contiene in sé entro un ambiente
significativamente espressivo del bene
della vita. La questione dell’asimmetria
del rapporto educativo è oggi
di bruciante attualità. L’affermare un
legame intrinseco tra educare e generare
è già introdurre l’idea di una relazione
asimmetrica. L’adulto che sa
della bontà di ciò di cui ha fatto esperienza,
trova naturale il trasmetterla.
Ora, se ciò che costituisce il patrimonio
di cui si è portatori non ha valore,
non si capisce perché bisogna trasmetterlo.
L’educare non è mai, in un
certo senso, ripartire da zero, ma effettuare
in maniera esistenziale e vivente
il passaggio di una tradizione, di un
patrimonio che ha già dato prova di
una buona riuscita. Questo patrimonio
di valori, di vita buona, «ha bisogno
di una funzione “paterna”, cioè
della buona autorità che accompagni
al senso vivibile delle cose». Sulla relazione
con l’autorità e in specie con
quella paterna come autorità che genera
incastonando il figlio al centro di un fluire storico e sociale di senso, sta
o cade la possibilità di una generosa
asimmetria nella relazione educativa.
Inutile dire come il congedo dal compito
educativo di tante famiglie ha in
questo nodo critico la scaturigine.
Quanto fin qui detto, costituisce
l’orizzonte entro il quale comprendere
e articolare quanto segue, ovvero la
declinazione dell’educazione cristiana
all’amore, ragionata in ambiti specifici,
quali la famiglia, la scuola, i
gruppi giovanili, i mass media.
Proviamo ad ascoltare alcune efficaci espressioni tratte dal film Il mandolino
del capitano Corelli (diretto da John
Madden): «Quando si accende, l’amore
è una pazzia temporanea. L’amore
scoppia come un terremoto e in seguito
si placa e quando s’è placato bisogna
prendere una decisione. (...)
L’amore è quello che resta del fuoco
quando l’innamoramento s’è consumato.
Non sembra una cosa molto eccitante
vero? Ma lo è».
Nel regno delle pulsioni, l’amore
ha perso il suo logos, ovvero la sua ragione,
«il vissuto affettivo si riduce alla
reattività emozionale, estranea alla
vita dell’intelligenza, perciò spontaneista
e incontrollata». La ricerca
delle emozioni, del piacere per il piacere,
produce da un lato la percezione
del proprio corpo come estraneo
alla vita interiore della persona e semplice
strumento di piacere; dall’altro
una sorta di sentimentalismo esasperato
che rincorre un amore impossibile
sempre materializzandosi nel prossimo
legame. Dare spessore all’amore
che integra i sentimenti con l’intelligenza
e con la volontà in una definizione
di sé entro un progetto vocazionale
definito e stabile, accettare il logos
dell’amore che resta, si profila oggi
come il compito per eccellenza
dell’educare all’amore.
I genitori sono «i primi e principali
educatori» dei loro figli. Essi hanno
il compito di «creare quell’ambiente
familiare vivificato dall’amore e dalla
pietà verso Dio e verso gli uomini che
favorisca l’educazione completa dei figli
in senso personale e sociale».
L’educazione in famiglia è questione
di ambiente: in specifico cosa significa?
L’uomo è colui che riceve la vita
da ciò che respira e da ciò che lo nutre,
è néfesh, cioè gola, ovvero la parte
del corpo che consente il passaggio
dell’aria e del cibo. Il bambino prima
di tutto si nutre di ciò che i suoi genitori
vivono, impara nutrendosi. Per
non parlare dell’adolescente che ha
le antenne stabilmente sintonizzate
sulla coerenza o incoerenza dei genitori.
Mi pongo dunque dal punto di vista
del rapporto qualitativo della coppia
coniugale, sicura che la via migliore
per educare i figli consista nell’educare
i genitori. Di seguito, consideriamo
alcuni nodi critici di adulti postmoderni
che impediscono ai figli una
compiuta personalizzazione:
1 - Paradossalmente, in un tempo di
individualismo esasperato, la coppia è
percepita più come fusione simbiotica
che come alterità. In tal modo, a
reggere il rapporto è il tentativo di perpetuare
l’innamoramento più che assecondare
la nascita dell’“amore che
resta”, che spesso viene invece scambiato
per la fine dell’amore. Una conflittualità
isterica e rancorosa si staglia
inevitabilmente all’orizzonte, si cercano
vie di fuga dalla coppia e inevitabilmente
dai figli, i quali cresceranno credendo
all’amore come passione travolgente,
irrazionale, ingestibile e, in ultima
analisi, inaffidabile.
2 - La coppia come reciprocità del
maschile e del femminile è in estrema
difficoltà. Non solo perché sempre di
più altri modelli vengono proposti come
altrettanto efficaci e legittimi, ma
anche perché l’ideologia di genere,
estrema soluzione del femminismo radicale,
ha liquefatto i confini tra i sessi
rendendo debole la spinta erotica che
invece ha bisogno della differenza sessuale
per essere. Un eros debole è incapace
di aprirsi all’agape rendendo la
coppia instabile e confusa rispetto a
identità, competenze e ruoli. I figli
avranno difficoltà nei confronti
dell’assunzione conscia della propria
identità sessuale senza la quale nessuna
scelta vocazionale è possibile.
3 - Venuta a mancare l’indissolubilità
come strutturale alla promessa
d’amore, essa ha trovato una nuova
via nella relazione genitori-figli. Sempre
più i secondi
rappresentano per
i primi il vero investimento
emotivo
compensatorio,
troppe volte, di un
rapporto coniugale
rotto. Così il figlio,
invece che essere
il frutto di
una relazione
d’amore, si trova,
suo malgrado, a ricoprire
il ruolo di
vero partner di
uno dei due genitori,
fino a essere,
concretamente, tenuto per anni nel
lettone coniugale per evitare qualsivoglia
approccio intimo da parte dell’altro
coniuge. Una confusione di ruoli
che genera nel figlio l’idea di una famiglia
dai toni indistinti, conflittuale e
simbiotica al contempo. Come farà a
definirsi in una vocazione compiuta?
4 - Infine, non va sottovalutato come
in chi si sposa o convive, l’idea di fedeltà
è spesso scalzata da quella di autenticità.
Mentre la fedeltà rimanda a una
promessa iniziale che costituisce la cornice
salda e interpretativa in una biografia
in continuo divenire, l’autenticità
non rinvia a nessuna promessa, ha a
cuore solo la fedeltà a sé stessi nell’attimo,
e ha come termometro il sentire.
È vero solo ciò che si sente adesso. Così
l’autenticità è il “cavallo di Troia” della
fedeltà. Questa sorta di precariato esistenziale
ha come effetto sui figli il formarsi
di una certezza: che nella vita
non è possibile compiere scelte irreversibili
come il matrimonio, la consacrazione,
perché nulla è definitivo ma tutto,
al contrario, è reversibile.
La scuola è anch'essa un ambiente,
un luogo che sta intorno e che dovrebbe
essere un reale sussidio
all’azione delle famiglie,
almeno così
secondo Gravissimum
educationis.
La crisi educativa
investe oggi la
scuola a più livelli:
quello fondativo
consiste nell’aver
smarrito a “chi” si
rivolge e, rinunciando
a una globalità
educativa, si
limita ormai a fornire
competenze,
informazioni, nozioni
(quando va
bene), senza offrire alcun quadro di
senso. Insegnanti ostaggio di genitori
rivendicativi, di dirigenti assillati dal
rendere la scuola appetibile per incrementare
le iscrizioni e quindi renderla
facile, si trovano stretti in una morsa
che sembra non trovare soluzioni
se non in una personale, spesso eroica,
dedizione.
In questo contesto che
riguarda unicamente l’educazione
all’amore, mi limiterò a ragionare
sull’idea dei cosiddetti corsi di “educazione
sessuale”. Pensati come informazioni
per il sesso sicuro, – leggi come
si utilizza un condom e come liberarsi
della gravidanza – sono a carattere obbligatorio, spesso senza la presenza testimoniale
dell’insegnante che imbarazzerebbe
gli studenti, dai contenuti
ignorati dai genitori e, ultimamente
sempre più spesso, con il corollario
dell’incontro con le organizzazioni
omosessuali. Il risultato è una sempre
maggiore ignoranza dei ragazzi sia sulla
propria biologia – che evidentemente
è altro dall’imparare un metodo
anticoncezionale – sia sulle relazioni.
Ritengo che associazioni di genitori,
gruppi di insegnanti debbano oggi
assumersi il ruolo di diventare propositivi
e critici nel merito dei corsi di
educazione sessuale perché divengano
veri e propri corsi di educazione
all’amore. Non solo: deve essere restituita
alle famiglie la possibilità di poter
accettare o rifiutare l’offerta formativa
della scuola su questo argomento,
una sorta di ri-appropriazione
del diritto di scegliere in un ambito
tanto delicato, la propria linea educativa.
Certo, sempre che alla famiglia
questo interessi.
Intendo con gruppi giovanili la sollecitudine
educativa della Chiesa verso
i ragazzi e i giovani declinata nelle
parrocchie, nelle associazioni in gruppi
nei quali i giovani, aiutati dalla guida
di adulti, annodano insieme l’amicizia
personale con il Signore e in essa
scoprono la propria originale vocazione.
Il gruppo è un luogo formidabile
di educazione affettiva, la rete di
amicizie aiuta a scoprirsi come persona
che ha valore. In questo senso è di
fondamentale importanza che la relazione
educativa sia personalizzata, ciascuno
deve poter essere chiamato per
nome perché è l’esperienza di essere
riconosciuti come qualcuno che introduce
nelle relazioni affettive.
Questo impone una profonda riflessione
sulla struttura dei gruppi che
spesso vengono percepiti dagli educatori
stessi come parcheggi, poco differenziati
in base all’età e agli obiettivi, a
volte addirittura poveri di qualunque
configurazione ecclesiale, rinunciando
a una seria catechesi in favore di
non si sa bene cosa. Il gruppo deve essere
il luogo nel quale ciascuno è, in
un determinato tempo, aiutato a scoprirsi
come termine di un dono e al
contempo capace di dono. Quello che
spesso in famiglia viene negato, e cioè
l’abitudine virtuosa a soffrire, a faticare,
a fallire, a scoprire il proprio perimetro
e a chiamare per nome l’amore
che resta, deve essere compito del
gruppo, inteso come cammino (strada
e non parcheggio) e come servizio
nel quale si mette alla prova la fedeltà,
la relazione di dono all’altro, i propri
limiti e peccati. Grande parte del
compito del gruppo è educare all’alterità,
al riconoscimento e alla pratica
di relazioni che non siano di fusione.
Il gruppo è una sorta di microcosmo
dove vivono amicizie, amori, odi, divisioni
e riconciliazioni. L’obiettivo primario
in questo ambito è l’annuncio
sia della verità dell’amore che resta,
sia, soprattutto, della misericordia come
passo del cammino. Misericordia
verso sé stessi e le proprie debolezze,
perché in questo mondo, dove tutto è
permesso ma niente è perdonato,
spesso si è stretti tra l’alternativa
dell’ipocrisia o della rinuncia. Ritengo
infine prioritario il fatto che i gruppi
non siano una sorta di “città dei balocchi”
dove i giovani vivono rinserrati
nel loro fortino perpetuando la separazione
dagli adulti, ma luoghi di
incontro generazionale dove gli adulti
esercitano per essi, gratuitamente,
la generatività che spesso in molte famiglie
manca. Coppie di coniugi, consacrati,
sacerdoti, insieme agli educatori
più giovani, rappresentano per i
giovani la possibilità di vedere le vocazioni
e una prospettiva di vita adulta
che donandosi genera altri alla vita.
Educare all’amore nel tempo della
pervasività massmediatica: quest’ultimo
paragrafo dovrebbe avere uno spazio
molto più ampio, ed espandersi
per molte, moltissime pagine. Ciò, ovviamente,
non è possibile. Mi limiterò,
dunque, a due brevi osservazioni.
1 - La prima riguarda i tradizionali
media, giornali e televisione. È chiaro
ormai che sono “luoghi” educativi,
nel senso che rendono evidenti, martellanti
e familiari personaggi e situazioni
che diventano inevitabilmente
un modello. Eppure, per quanto riguarda
lo specifico dell’educazione
all’amore ritengo che, pur essendo ormai
mezzi che hanno chiaramente
sposato una visione di persona e di relazione
imperniata sull’ideologia di
genere, la loro estrema pericolosità
potrebbe risiedere nel fatto che sono
un riferimento imprescindibile del
mondo degli adulti. Quando una figlia
vede la madre tutti i giorni alienarsi
con Beautiful, o peggio, con L’isola
dei famosi o altri programmi “spazzatura”
similari, ha tutto il diritto di pensare
che, se per la madre quei modelli
sono buoni, allora possono esserlo
per davvero, o, se ha raggiunto una
buona dose di capacità critica, giungerà
a disprezzare questi adulti che scelgono
simili banalità per rilassarsi o divertirsi
restando così senza alcun modello
di vita adulta cui riferirsi.
2 - La seconda considerazione riguarda
il mondo dei nuovi media: la
rete, i social network, le chat. Sono
ora questi i luoghi dell’educazione
all’amore. Lo sono perché, da un lato,
permettono una pressoché totale
libertà di esplorare mondi differenti
e di liberare domande e curiosità lontano
dagli adulti; dall’altro, però, questa
libertà è inevitabilmente ristretta
nell’effetto tribù. Nei social network
ciascuno resta nell’ambito delle proprie
convinzioni, si scelgono le amicizie
in base alla conferma delle proprie
idee, contribuendo invece che
ad allargare gli orizzonti di comprensione,
a restringerli nel chiuso della
conferma di sé. Un discorso a parte
merita il corto circuito che vi si consuma
tra l’apparire e l’esserci. Il fenomeno
di adolescenti che postano foto in
bagno pressoché svestite, in pose accattivanti
– speculare tra l’altro a quello
delle loro madri che tornate dal mare
inondano Facebook con foto con
costumini improbabili –, dice come
sia in corso in maniera precocissima il
fenomeno del corpo da “esposizione”
che fa aggirare le lungaggini delle relazioni
come addomesticamento, direbbe
la volpe del Piccolo Principe.
Il modo di essere nel web diventa,
allora, il modello del comportamento
reale, e un’educazione all’amore che
resta deve tenere conto che i ragazzi
ragionano e scelgono in base a un’intelligenza
che ha le categorie sulla
struttura della rete più che quelle logiche.
Si presenta allora l’obbligo di
esplorare la via dell’intelligenza intuitiva
come porta d’ingresso per ragionare
di amore. Entrare dalla porta
delle emozioni e da esse risalire il
cammino della consapevolezza.
In Gravissimum educationis, i padri
conciliari intendono la relazione educativa
entro un contesto, un ambiente.
Questa convinzione è oggi più mai attuale
ed è resa con espressioni quali
“fare rete”, sottoscrivere un patto educativo,
stringere un’alleanza. Allo stesso
modo, l’invito all’educazione come
fatto totale, d’integrazione di intelligenza,
libertà e volontà in vista di un fine
che è la persona capace di dono di
sé alla misura di Cristo, se cinquant’anni
fa poteva sembrare un fatto acclarato,
si presenta oggi come una assoluta
novità.
La frammentazione della persona
nella sua identità sessuale, nella relazione
con il proprio corpo, nell’incapacità
di distanziarsi dalle proprie pulsioni
per accedere a una relazione di
alterità che sfoci in una libertà che si riconosca
in una scelta di vita irreversibile,
dicono quanto ci siamo allontanati
dal personalismo che pervade tutto il
documento conciliare e quanto abbiamo
bisogno di attualizzarlo con nuovi
metodi, nuovi linguaggi, nuovi tempi
e nuovi luoghi per dire quello che sempre
il cuore dell’uomo aspetta.
Trovo che oggi educare all’“amore
che resta” sia addirittura più facile di
allora, perché davanti a questa devastazione
simbiotica e impulsiva, il cuore
dei giovani domanda, seppure in maniera
confusa e contraddittoria, di essere
aiutato a ritrovare la strada per
rientrare in sé stesso. Là trova l’Uomo
vero che rende ragione, nell’intimo,
della Verità intrinseca dell’eros bramoso
di abbracciare l’agape.