«Generalmente sono ottimista e anche adesso lo rimango. Ma ora tutti abbiamo delle preoccupazioni, che il Paese possa prendere una piega autoritaria, o magari islamista, che tutto il lavoro fatto non serva a nulla. E chiaramente la preoccupazione che sovrasta le altre ha un nome ed è Consiglio Militare». Seduta a un tavolino del centrale caffè Groppi, al Cairo, Khouloud Bidak dà voce ai suoi timori, di fronte ai segnali preoccupanti che in questi giorni arrivano dall'Egitto.
Trent'anni, capelli corti e niente velo, Khouloud è una dei tanti giovani che con le loro proteste a febbraio di quest'anno hanno portato alla caduta di Hosni Mubarak. L'entusiasmo delle giornate di piazza Tahrir non le è venuto meno, ma a questo si è aggiunto la consapevolezza che la strada per al stabilità è lunga e pericolosa. E come lei la pensano in tanti, specie ora che il Paese si trova alla vigilia di un appuntamento decisivo. Tra poco più di un mese milioni di egiziani sperimenteranno qualcosa che non vedevano da una trentina d'anni, ovvero delle elezioni libere.
Il Consiglio Militare del maresciallo Tantawi, che da febbraio guida la transizione, ha fissato la data delle consultazioni per la camera bassa del parlamento al 28 novembre. Dal 29 gennaio invece si terranno le votazioni per la Shura, la camera alta. Proprio in questi giorni i primi candidati stanno cominciando a registrarsi e il timore espresso da più parti è che i membri del vecchio Partito Nazionale Democratico di Mubarak tentino di riciclarsi nelle nuove istituzioni.
Nel frattempo i segnali che arrivano dalla strada sono inquietanti. Ultimo in ordine di tempo quello di domenica nove ottobre, quando una manifestazione organizzata principalmente da cristiani copti per protestare contro la distruzione di una chiesa nell'alto Egitto è stata repressa nel sangue. Le circostanze degli incidenti sono ancora tutte da chiarire, ma sempre più testimonianze parlano di un attacco deliberato dell'esercito e della polizia nei confronti dei dimostranti. Il risultato, in ogni caso, è che più di trenta persone hanno perso la vita.
In questo Paese di 82 milioni di abitanti, con un'età media di 24 anni, ormai è chiaro a tutti che la rivoluzione è solo il primo passo di un lungo cammino. E ora all'instabilità politica rischia di saldarsi, nuovamente, quella economica. L'Fmi nel suo ultimo rapporto sul Paese ha dipinto un quadro preoccupante: la crescita rallenta, il debito pubblico sta raggiungendo livelli di guardia e gli investimenti stranieri non ripartono. Nel frattempo l'inflazione rimane elevata, il turismo è crollato e i salari minimi restano bassi, intorno ai 700 pounds egiziani (circa 80 euro al mese). Il sogno egiziano non è svanito, ma forse, per realizzarlo, ci vorrà più tempo del previsto.
La carneficina di domenica nove ottobre è solo l'ultimo capitolo, forse il più oscuro, delle tensioni anche religiose, che attraversano il Paese. Gli scontri tra cristiani e musulmani non sono un fenomeno nuovo in Egitto e l'anno scorso si sono acuite dopo la bomba di gennaio alla Chiesa della Vergine Maria di Alessandria.
I cristiani egiziani (che rappresentano dal 6 al 10% della popolazione) da tempo denunciano le leggi restrittive per ottenere i permessi di costruzione o di ristrutturazione delle chiese, mentre le moschee godono di un regime più liberale. Le tensioni, nel caso del nove ottobre, però, sembrano piuttosto essere state utilizzate come un pretesto per la repressione: secondo molti testimoni in piazza, insieme ai cristiani che chiedevano il rispetto dei loro diritti, c'erano anche tanti musulmani e tutti sono stati oggetto della violenza della polizia e dell'esercito.
Quel che è certo è che in quella notte di sangue qualcosa si è rotto: secondo alcuni questo qualcosa è la paura, che ha portato in massa nelle piazze i copti, tradizionalmente abbastanza distanti dalla politica. «L'apparato di sicurezza - ha scritto su internet il noto blogger Sandmonkey - ha sempre giocato un gioco sporco con i cristiani in passato, incitando segretamente gli attacchi nei loro confronti da parte di gruppi islamici, in modo da avere poi il supporto dei copti desiderosi di protezione. Ma ora che i militari hanno ucciso i cristiani con le loro mani, hanno anche perso la loro credibilità come “protettori”».
La questione religiosa giocherà probabilmente un ruolo anche nelle elezioni. Ma allo spettro di una possibile islamizzazione del Paese non sembrano credere in molti, nonostante il movimento islamico dei Fratelli Musulmani sia fra quelli più quotati per un buon risultato elettorale. Negli ultimi giorni ha sollevato numerose polemiche la scelta del partito Libertà e Giustizia, braccio politico dei Fratelli, di utilizzare lo slogan “L'Islam è la soluzione”.
«Non sono spaventato dai fratelli musulmani - spiega Ahmed Maher, uno dei membri del Movimento rivoluzionario 6 aprile - abbiamo avuto contatti con loro prima della rivoluzione, ci hanno aiutato, anche loro hanno sofferto molto la repressione durante il periodo di Mubarak. Il problema secondo me potrebbero piuttosto essere i gruppi salafiti, più radicali, nuovi alla politica, meno formati. Ma stiamo cercando di gettare dei ponti anche nei loro confronti, cercando un colloquio. Detto questo bisogna ricordare che gli Egiziani non sono salafiti. Non siamo una società laica, questo è vero. Noi egiziani siamo religiosi, ma non radicali. E non credo che qualcuno possa forzarci a diventarlo».
Per trent'anni non hanno praticamente conosciuto rappresentanza sindacale, condannati ai diktat di un sindacato ufficiale, l'Etuf, corrotto e controllato dal gGoverno. Con la caduta del regime e lo scioglimento dell'Etuf, però, i lavoratori egiziani hanno cominciato a organizzarsi e si preparano ad una nuova alba, in qualche modo a una rivoluzione nella rivoluzione.
Dai medici agli insegnanti, dagli autisti ai lavoratori portuali, in tantissimi sono scesi in piazza negli ultimi mesi, per chiedere maggior sicurezza, più rappresentanza, migliori condizioni salariali. Gli stipendi in Egitto rimangono infatti bassi: da gennaio il minimo dovrebbe essere fissato intorno agli 80 euro al mese. In un Paese dove le manifestazioni di piazza sono state vietate per lungo tempo e i sindacati indipendenti sono stati spesso considerati nemici dello Stato, una nuova coscienza dei lavoratori però ha cominciato a svilupparsi.
Tempo fa il ministro del Lavoro egiziano ha pubblicato un documento in cui spiegava che avrebbe al più presto promulgato una legge per rendere definitivamente libere le associazioni dei lavoratori. La legge per il momento non si è vista, ma l'effetto immediato dell'annuncio è che una serie di nuovi sindacati ha cominciato ad organizzarsi. Dalla caduta dell'ex raìs ne sono nati almeno 130.
«Siamo all'anno zero da questo punto di vista - mi spiega in un ufficio poco distante da Piazza Tahrir Kamal Abbas, 56 anni, uno dei più noti attivisti egiziani per i diritti dei lavoratori, finito in carcere a più riprese negli scorsi decenni - le opportunità sono molte e i rischi altrettanti». Abbas, con il suo Ctuws (Center for trade unions and workers service), una Ong che si batte per i diritti dei lavoratori, da più di vent'anni fornisce servizi, assistenza legale, cure. Ora sta giocando un ruolo centrale nella formazione dei nuovi movimenti sindacali.
«La situazione del lavoro in Egitto - continua Abbas - è molto complicata e si è sedimentata durante gli anni. C'è ad esempio un abuso di contratti a tempo determinato, e nel settore privato questo si unisce ad una estrema facilità di licenziamento. I salari sono bassi. Per non parlare delle condizioni di lavoro, spesso al limite della decenza. Manca inoltre una contrattazione collettiva, per cui c'è scarso dialogo tra datori di lavoro, sindacati e lavoratori. Ma il problema forse maggiore è la sfiducia che in questi decenni i lavoratori hanno maturato nei confronti dei sindacalisti, visti come pedine nelle mani dello Stato, corrotti, incapaci a difendere i diritti dei lavoratori. Una sfiducia che sarà difficile da sgretolare».
«Questa è tutta gente che ha corrotto e rovinato la vita politica in Egitto per trent'anni. Se ne devono andare. Il Consiglio militare però su questo punto non dice nulla». Alaa Al Aswany è il più noto scrittore egiziano, ma non ha abbandonato la sua professione originaria, il dentista. Avvolto in un camice blu, nel suo studio al quarto piano di un palazzo di El Diwan, al Cairo, poco distante dall'ambasciata italiana, aspira una boccata dall'ennesima sigaretta.
Il dottor Al Aswany, che oltre ad essere uno scrittore e un dentista è anche un membro del movimento di opposizione Khifaya, si riferisce al progetto di legge elettorale che il consiglio militare egiziano sta mettendo a punto in vista delle elezioni. La bozza di legge approvata nelle scorse settimane prevede un 70% di voti di lista e un 30% di voti per i candidati individuali: una scelta fortemente condannata da molti dei nuovi movimenti politici, i quali temono che così facendo gli uomini del vecchio regime possano riciclarsi nel nuovo Parlamento.
«Il problema - continua Al Aswany - è che il Consiglio militare non ha il concetto chiaro della rivoluzione. Hanno supportato la rivoluzione, ma le scelte fatte nel periodo successivo sono state sbagliate. E ultimamente mi sembra che stia un po' abbracciando il concetto che la rivoluzione è una cosa buona, ma non lo sono i rivoluzionari. Per questo credo che sia davvero importante la transizione del potere con le elezioni».
Uno dei problemi centrali del Paese, spiega l'autore di Palazzo Yacoubian, è «la corruzione e quello è un problema che ci vorrà tempo a debellare. Per quanto riguarda invece la questione delle libertà di espressione, bé, la situazione è in parte migliorata, ma c'è un rischio di involuzione. Nell'era di Mubarak, specie negli ultimi dieci anni, era stata coniata una formula, per cui la gente poteva dire quello che voleva, ma il regime avrebbe comunque fatto quello che voleva. E io temo che ora questo possa in qualche modo continuare. Prendiamo ad esempio il mio lavoro: io non ho problemi a scrivere, ma le persone, gli scrittori, i giornalisti, non scrivono solo per scrivere, ma anche per influenzare le autorità. E' la dialettica democratica. Ecco, se l'autorità rimane sorda allora vuol dire che c'è un problema».