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domenica 20 aprile 2025
 
 

L'elezione del Presidente della Repubblica

20/04/2013  Elezioni del Presidente della Repubblica: protagonisti, retroscena e trattative.

Silvio Berlusconi accompagnato da Angelino Alfano mentre sale al Colle per il colloquio con Napolitano
Silvio Berlusconi accompagnato da Angelino Alfano mentre sale al Colle per il colloquio con Napolitano

L’armistizio si chiama Giorgio Napolitano. Da ipotesi di scuola, paventata da molti qualche mese fa, all’unico sbocco possibile di un corto circuito politico-istituzionale che, nell’ordine, ha distrutto il Pd, bruciato due candidati di prestigio come Franco Marini e Romano Prodi e tenuto il Paese sospeso ad un immobilismo intollerabile. Il Pdl in tutta questa situazione ha giocato di rimessa. Ha chiesto a gran voce al leader, anzi ex leader, del Pd Bersani di individuare un nome condiviso. C’è stato l’accordo su Marini affossato dai franchi tiratori dello stesso Partito democratico.

Poi ha scatenato la bagarre contro Romano Prodi («Se eleggono lui, andiamo tutti all’estero», aveva detto Berlusconi sabato scorso a Bari) fatto fuori, però, dal suo stesso partito venerdì pomeriggio. Troppo forte, vista la precaria situazione numerica e politica del Pd, da chiedere a gran voce un candidato condiviso nella consapevolezza che i democratici con Sel non ce l’avrebbero fatta da soli, il Pdl si è rivelato altrettanto debole nel proporre un nome legato alla propria area politica. «Stiamo alla finestra ed aspettiamo le mosse del Pd», è stato il leit motiv ripetuto dai pidiellini. Fino all’implosione definitiva dei democratici.

A quel punto Sandro Bondi, uno dei big del partito, ha fatto il nome di Giorgio Napolitano. Poi Berlusconi è salito al Colle dove, secondo indiscrezioni, avrebbe chiesto l’aiuto del Capo dello Stato per uscire dal pantano. «Non sappiamo più con chi parlare nel Pd. Le chiedo di fare per quanto possibile da mediatore con tutti questi interlocutori», avrebbe detto Berlusconi nel colloquio di sabato mattina al Colle. Gaetano Quagliariello, uno dei saggi nominati da Napolitano, aveva spiegato: «Dietro l’unanimità nel Pd si celano divisioni che neppure Prodi può sanare». Come dire: non abbiamo nessun interlocutore affidabile con cui parlare.

I conti sono presto fatti. Dopo l’affossamento di Prodi, infatti, il Pd era a un bivio: piegarsi a Grillo e votare il suo candidato Stefano Rodotà oppure riaprire di nuovo il confronto per scegliere un candidato condiviso. In ogni caso il Pd sarebbe andato letteralmente in pezzi. In questa situazione di emergenza Napolitano era l'unico, secondo i ragionamenti del centrodestra, che può indicare il suo successore, «Anche perché», avrebbe spiegato il Cavaliere, «qualsiasi nome noi facessimo verrebbe sotterrato a scrutinio segreto». A cominciare da quel Massimo D'Alema molto gradito al leader del Pdl ma che avrebbe ugualmente spaccato il Pd.

Venerdì era balenata anche l'ipotesi di Anna Maria Cancellieri che però, a quanto sembra, ha lasciato perplesso Berlusconi: «Ci vuole un presidente della Repubblica capace di gestire una situazione così complessa». Un Napolitano-bis significa un governo del Presidente (circola già il nome di Giuliano Amato come premier) in un’ottica di larghe intese, ora più che mai inevitabili. È quello che ha sempre voluto Berlusconi. Venerdì la giornata per il Cavaliere era cominciata malissimo con l’acclamazione del Pd per Romano Prodi. È finita con i democratici a pezzi, l’arcinemico affondato e le larghe intese ad un passo.

Ora però il baricentro si sposta sulla scelta del capo del governo. Accanto all'opzione Amato, ben vista dal Pdl ma non altrettanto dal Pd, e a quella di Piero Grasso, tecnicamente più difficile perché la presidenza del Senato rimarrebbe vacante, nel partito di via dell'Umiltà si ragiona anche sull'ipotesi Enrico Letta. In quel caso, tuttavia, sottolineano fonti pidielline, Berlusconi metterebbe sul tavolo la richiesta di una forte rappresentanza del suo partito, con figure di spessore e politiche. La partita è solo agli inizi.

Antonio Sanfrancesco

L’appello a Giorgio Napolitano per salvare il Partito Democratico. Ultima, disperata carta di Pierluigi Bersani, dopo la Caporetto della candidatura Prodi e la resa di un gruppo dirigente troppo diviso, rancoroso, incapace di compattarsi di fronte alle scelte più gravi e importanti del Paese. Due anime- quella laica proveniente dalla radice del vecchio Pci e quella cattolica di impronta popolare – che non si sono mai veramente amalgamate. Fusione a freddo si è detto fin dall’inizio. Ma erano i tempi frenetici della Seconda Repubblica e il tempo a disposizione non era molto. Troppe congiure di Palazzo, troppe ambizioni personali, troppo diversi gli atteggiamenti mai risolti nei confronti dell’amico-nemico Berlusconi e soprattutto dei modelli del berlusconismo imperante del ceto medio.


L’ultimo periodo attraversato dal segretario Pierluigi Bersani, il leader che in autunno sembrava avere la vittoria in tasca, è stato una specie di cupio dissolvi. Anche in queste elezioni, nonostante i proclami per acclamazione dei candidati, regnava la discordia. E infine quella sorta di “baco” interno di nome Matteo Renzi, lo sconfitto alle primarie che in questo momento sembra avere in pugno quel che resta del partito. Il Pd resta la formazione più numerosa alla Camera, con la responsabilità politica di proporre un candidato per la presidenza della Repubblica. Ma almeno in queste ore sembra essere in balia delle scelte di altri. La candidata ostinatamente portata avanti da Scelta Civica, Anna Maria Cancellieri, L’aspirante presidente della sinistra e dei grillini Stefano Rodotà. L’ipotesi del presidente del Senato Grasso. E, infine, mentre si susseguono le fumate nere, il ripiego sull’uomo del Colle con le valige già pronte: Giorgio Napolitano. Col sospetto che una sua eventuale permanenza al Quirinale prolunghi semplicemente l’agonia di un partito che non c’è.
                                    Francesco Anfossi

Oltre mille grandi elettori, più decine e decine di giornalisti, segretari, assistenti, portavoce e portaborse, ex parlamentari, giornalisti in pensione. Una folla che potrebbe benissimo riempire una nave da crociera. Il nome di Transatlantico per il lungo corridoio all’esterno dell’aula di Montecitorio diventa più che mai appropriato in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica.

E’ una crociera senza vista mare, anzi un po’ claustrofobica. Si sta al chiuso e l’unico sfogo è il cortile interno, dove si può fumare e dove le televisioni hanno piazzato le loro telecamere per i collegamenti in diretta.

Le operazioni di voto sono lunghissime. C’è una prima chiama e poi una seconda. Per conoscere il risultato ci vogliono tre ore. Nel frattempo si passeggia e si chiacchiera in Transatalantico, sui divanetti, nei corridoi, in cortile. Quasi tutti tengono in mano un telefonino, molti anche un tablet. Le notizie e le dichiarazioni viaggiano in tempo reale.

Gli uomini vestono quasi tutti in scuro. La giacca è obbligatoria. Anche i parlamentari del Movimento Cinque Stelle di Grillo orami si presentano eleganti e incravattati. Le parlamentari sono più fantasiose. Vistoso il completo rosa shocking esibito dalla Finocchiaro venerdì, nel giorno della disfatta del Pd. I tacchi a spillo più  vertiginosi si addicono soprattutto alle donne del centrodestra, come Daniela Santanché e Paola Pelino. Renata Polverini, ex presidente della Regione Lazio, ha esibito anche un completo giacca-pantalone completamente bianco.

Per rifocillarsi c’è sempre la buvette, ma i prezzi non sono più quelli stracciati di una volta, così i grandi elettori sciamano volentieri verso i bar nei dintorni di Montecitorio, dove abbondano buone caffetterie e ottime gelaterie. Anche Umberto Bossi si è seduto ai tavolini del bar Giolitti per bere una bibita e fumarsi il sigaro.

Per farsi un riposino sono eccellenti i morbidi divani della sala di lettura, dove le luci sono soffuse  e conciliano il sonno. Venerdì si è fatto una splendida dormita a bocca aperta l’ex parlamentare ed ex ministro della Giustizia Alfredo Biondi.

Sono numerosi gli ex parlamentari che si aggirano a Montecitorio. Spesso gli ex parlamentari sono anche giornalisti (qualcuno pensionato, altri che ancora scrivono). Notati in questi giorni l’attivissimo Paolo Cirino Pomicino (tempo fa gli hanno trapiantato il cuore, ma sembra avere una marcia in più rispetto a molti altri), Gustavo Selva, Alfredo Biondi, Luciana Castellina, Alfredo Reichlin, Alberto La Volpe, Vittorio Emiliani, Eugenio Scalfari.

Non tutti i leader si affacciano in Transatlantico. Bersani non si è mai fatto vedere, invisibili anche Alfano e Berlusconi. Molto presente, invece,  Nichi Vendola, che ha molto apprezzato la copertina di Famiglia Cristiana dedicata a don Tonino Bello.

Ormai molto avanti con la gravidanza, non ha partecipato alle votazioni la pluricampionessa olimpica di scherma Valentina Vezzali (eletta con Scelta Civica), ma le glorie dello sport italiano sono state rappresentate da Josefa Idem (Pd), la quale insieme ai grandi elettori dell’Emilia Romagna si è opposta fin da subito, sia pure con grandi tormenti,  alla candidatura di Franco Marini.

Arrivati a sabato, la prospettiva di altri giorni di votazioni spaventa molti grandi elettori. Diversi fra loro  avevano già prenotato treni o aerei per il ritorno a casa entro il fine settimana. Qualcuno confida di essere rimasto senza camicie pulite. Una eventuale rielezione di Napoletano potrebbe accelerare i tempi e garantire il rientro a casa entro domenica.

 

Roberto Zichittella

L’elezione di Franco Marini, probabilmente ormai tramontata nei rimanenti due scrutini a maggioranza qualificata, potrebbe riaffiorare a partire dal quarto scrutinio, domani pomeriggio, quando la maggioranza richiesta “scenderà” dai due terzi degli elettori (672) alla metà più uno (504).

In questo caso salirebbe al Quirinale un esponente di area cattolica dopo due settennati cosiddetti “laici”, quelli di Ciampi e Napolitano. E’ ancora possibile ragionare secondo gli schemi binari “laici-cattolici” adoperati nella Prima Repubblica? Probabilmente no, in linea di principio.

Anche perché il Capo dello Stato deve spogliarsi in qualche modo della sua biografia personale e divenire il “presidente di tutti”, come è avvenuto per gli undici presidenti della Repubblica che abbiamo avuto. Ed è persino banale, come dice Renzi, asserire che “la scelta della fede”  non può essere l’unico elemento con cui si sceglie un Capo dello Stato.

Ma è anche vero che quest’alternanza garantiva l’avvicendamento sul Colle di quelle culture fondanti che sono alla base della Costituzione: liberale, socialista e cattolica. In questo senso la candidatura di Franco Marini, già segretario della Cisl e ministro del Lavoro, referente della componente popolare di matrice democristiana del Partito Democratico, ha tutte le carte in regola per rappresentare i valori che si richiamano alla tradizione cattolica.
“Marini”, ha scritto il quotidiano Europa, “è da molti anni uno dei più autorevoli punti di riferimento di quel cattolicesimo sociale che ha accompagnato la storia e la crescita della democrazia italiana”. Per alcune parti del mondo cattolico non si tratta di una scelta entusiasmante, giudicandolo più democristiano che cristiano (ed è forse la ragione della sua candidatura che lo vede come punto di convergenza tra Pdl, Pd e montiani).

Tra l’altro l’ex segretario della Cisl scese apertamente in campo contro la Cei (“anche i vescovi quando ragionano di politica possono sbagliare”, disse) ed entrò in collisione con L’Avvenire e l’Osservatore Romano, che avevano criticato la posizione del Ppi nel campo della fecondazione assistita. Ma l’elezione di Marini sarebbe certamente preferibile alle candidature orgogliosamente laiche del postcomunista Massimo D’Alema, per non parlare del costituzionalista Stefano Rodotà, che soprattutto nel campo della bioetica ha manifestato opinioni molto vicine a quelle dei radicali. A meno che non emerga la figura di un cattolico “Romano” adulto. Nella situazione attuale questa sì che sarebbe la scelta vincente...

Bianca, bianca, bianca… Non vorremmo essere nei panni della presidente della Camera, costretta a ripetere all’infinito l’inutilità dei politici sconfitti. L’idea-Marini è stata capace di sortire soltanto la scheda bianca, quasi un’ammissione d’impotenza di fronte a due Camere riunite nella forma ma incapaci di partorire un’idea comune nei fatti.

Non è la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali, questo è noto. Ma preoccupa di più, stavolta, perché se in passato la scialuppa di salvataggio della scheda bianca dava la sensazione agli italiani di una pausa necessaria, una riflessione obbligatoria, una sorta di “tempo; leggo” nella partita a poker del Quirinale, stavolta l’impressione vira decisamente verso la desolazione e lo sconforto.

È un po’ come se i politici ci dicessero: “Ehm… adesso… sì, vabbè… uffa, d’accordo, è vero, non sappiamo più come se ne esce”. Brutto, vero? Vengono i brividi a pensare che le ore del voto bianco servano alle segreterie, alle teste pensanti, ai messaggeri vaganti, alle diplomazie di partito, per trovare uno straccio d’ipotesi percorribile senza che poi stramazzino nel nulla. Quel colore così immacolato stavolta sa tanto di tradimento vergognoso.

Vi abbiamo rivotato, nonostante il porcellum; crediamo ancora in voi, anche se non dovremmo; continuiamo a parteggiare, nonostante i vostri strepiti stonati e voi, invece, bandiera bianca, pardon, scheda bianca. Certo, non è come eleggere un rappresentante di classe o il segretario della riunione di condominio ma appunto per questo, diamine, mettetecela tutta, spremete le meningi e parlatevi di più. Niente, Boldrini insiste: bianca, bianca, bianca…

A qualcuno sembra una via di fuga, ad altri la salvezza momentanea prima delle decisioni irrevocabili. In altri ancora s’insinua il dubbio: e se invece della bianca, che tanto poi è inutile, me ne andassi in giro per Roma? Eh già, ci manca solo questo. Bianca, ’sta bianca va avanti senza sosta. La Lega l’ha detto per prima: noi votiamo bianca. A seguire tutti gli altri, dal Pd a sinistra al Pdl a destra. Come sono uniti, eh? La scheda bianca come “refugium peccatorum” di chi ha sbagliato i conti, di chi s’era illuso, di chi pensava di mettere in bastoni tra le ruote degli altri, di chi aveva “trovato la quadra”, che poi gli è scivolata via, sfuggita di mano, scomparsa all’improvviso, evaporata.
Ora, mettiamola così, cari grandi elettori: se nel giro di questi primi tre scrutini la bianca vi serve per scovare l’ago nel pagliaio e risolvere la cosa, ebbene, fate pure, stiamo qui e vi aspettiamo.
Ma se dopo ’sta “lenzuolata” di candore elettorale non riuscirete a esprimere un candidato eleggibile da tutti o quasi, che farete? Da quella bianca passerete alla scheda nulla? Nulla, come il contenuto di tante giornate passate a discutere invano su chi potrebbe essere l’eletto. In passato, il presidente si è trovato anche al ventitreesimo scrutinio ma oggi i tempi sono cambiati. Bisognerebbe fare come col tennis: l’invenzione del tie break presidenziale; che so, dopo il sesto turno si elegge anche senza maggioranza assoluta.

Già, ma in un Paese che quando non vota scheda bianca è capace di dare la preferenza a Valeria Marini, Raffaello Mascetti e Veronica Lario (tutte persone per bene, ci mancherebbe…) chissà cosa sarebbero capaci di fare, i nostri 1.007 grandi elettori… E allora ecco che restiamo così, immobilizzati in una scheda bianca, come nell’Angelo sterminatore di Luis Buñuel, incapaci di muoverci e dire chi dovrà diventare per sette anni il presidente di tutti. Intanto, qui e là, timidamente spunta un Chiamparino, s’intravvede un Rodotà, fanno capolino persino Bindi e Bonino, tra quelle centinaia di autorevoli ma così smodate bianche, più a sottolineare una fantasmatica presenza che a confermare che sì, ci sono anche loro, dopo tutto. A ogni “Rodotà”, a ogni “Chiamparino”, ci si desta come per incanto, quasi che quei nomi costituiscano una benefica scossa prima di affogare nel candido torpore. Poi, ahinoi, ricomincia lo strazio: bianca, bianca, bianca.
E a ogni scheda letta i capi partito sospirano soddisfatti del loro nulla così puro, neutro, innocente. Mentre altri già sono usciti dall’aula e vagano per i corridoi e si confrontano, come gli studenti che hanno finito il compito in classe: “M’ero preparato per bene ma è stato più facile del previsto, ho già finito”. Per oggi.
Domani, altro compito in aula, altro tema in bianco. Facile, in effetti. Troppo.

                                                                                                     

Manuel Gandin

Franco Marini è stato il nominativo più votato durante il primo voto per l'elezione del presidente della Repubblica (Reuters).
Franco Marini è stato il nominativo più votato durante il primo voto per l'elezione del presidente della Repubblica (Reuters).

Nulla di fatto dopo la prima votazione per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Franco Marini non raggiunge la maggioranza dei due terzi, pari a 672 voti su 1007 grandi elettori.

I voti per Marini sono stati 519 e potrebbero bastargli solo dal quarto scrutinio in poi.

Molti i voti per Rodotà, (241) evidentemente sostenuto non solo dai grillini e da Sel, ma anche da parlamentari del Pd contrari alla scelta di Marini. Resta evidente, quindi, la spaccatura nel Pd, che al suo interno (non solo nella componente genziana) ha mal digerito la scelta dell’ex presidente del Senato.

Il nome di Marini non è accettato neppure da Vendola, che parla chiaramente di “melassa” e “inciucio”. Malumori anche tra diversi deputati centristi montani, mentre il Pdl, secondo le parole di Paolo Romani, resta  unito sul nome di Marini.

La votazione a Montecitorio è cominciata poco dopo le 10 e lo spoglio delle schede si è concluso solo verso le 14, dopo una procedura abbastanza macchinosa, che sembra lontana dai tempi veloci della moderna comunicazione.

Nel pomeriggio si svolgerà la seconda votazione. Vedremo se il Pd e il Pdl insisteranno sul nome di Marini. Non si esclude che si scelga di votare scheda bianca per non “bruciare” il nome di Marini, magari per poi riproporlo dalla quarta votazione.

Davanti a Montecitorio intanto si sta svolgendo una manifestazione che contesta la scelta di Bersani e a sostegno di Stefano Rodotà. Il mal di pancia del popolo di sinistra resta molto forte.

Pier Luigi Bersani (Reuters).
Pier Luigi Bersani (Reuters).

Dopo la prima votazione per l'elezione del presidente della Repubblica, tutto resta ancora aperto, ma solo dal punto di vista dei numeri. Per il "lupo marsicano" Marini la porta del Quirinale è tecnicamente ancora aperta, soprattutto a partire dalla quarta votazione, la prima a maggioranza semplice.

Ma dal punto di vista politico, il comune cittadino elettore come chi scrive ha netta l'impressione che la dirigenza del Pd abbia scelto di suicidarsi nel modo più complicato e doloroso. Qualche considerazione.

1. Dopo aver detto "no" per un mese al governissimo, o Governo delle larghe intese col Pdl, eccola a scegliere il Presidente con lo schema, appunto, delle larghe, anzi larghissime intese. Bersani ci direbbe: la partita per il Quirinale è altra cosa rispetto alla formazione di un Governo. Forse. In teoria. Ma sarebbe poi il Presidente appena eletto a distribuire le carte per la formazione del nuovo, ipotetico Governo, quindi il sospetto di un voltafaccia è concreto e giustificato.

2. Se almeno il partito fosse compatto. Ma alla prima votazione, al candidato "di partito" Marini sono arrivati solo 521 voti, con 104 schede bianche e 15 nulle. Quel che manca è frutto quasi interamente del dissenso interno al Pd. Con un ulteriore paradosso:  la "destra" Pd (renziani e C.) sceglie un uomo di sinistra come Rodotà, mentre la "sinistra" (Bersani e il gruppo dirigente) sceglie un candidato accetto ai moderati. Di fatto, questa elezione presidenziale ha fatto nascere un secondo Pd, palesemente alternativo al primo.

3. Grillo va gridando su ogni tetto che "Marini è il candidato di Berlusconi". Propaganda, certo, ma anche un briciolo di verità: almeno per le ragioni di cui sopra, e poi anche per il fatto che a Marini comunque si è arrivati nel tentativo di accontentare Berlusconi o, per dirla meglio: per tener conto che il PdL ha comunque ottenuto il 30% dei voti. Dal punto di vista della comunicazione politica, per il Pd è in ogni caso un disastro.

4. Ovviamente le qualità personali di Franco Marini non sono in discussione e non c'entrano con questo discorso. Ma è chiaro che se Marini non diventa Presidente, la linea Bersani (già non brillantissima, quanto a risultati, con le elezioni politiche e con le successive trattative per il Governo) esce bocciata in modo clamoroso. Anche se il prossimo candidato viene estratto dal mazzo degli uomini simpatizzanti per il Pd o stimati dai suoi elettori. In altre parole: eleggere Marini con il PdL non è come eleggere D'Alema con il PdL, e tantomeno come eleggere Prodi o Rodotà con i grillini. Così, spiace dirlo, ma se Marini non passa Bersani dovrebbe lasciare la segreteria.

Fulvio Scaglione

Maroni con Berlusconi e Alfano (Reuters).
Maroni con Berlusconi e Alfano (Reuters).

Sette anni fa, la Lega dettava praticamente il gioco politico dell'elezione del nuovo Capo dello Stato, sparigliando o facendo da ago della bilancia, anche se Napolitano venne eletto dal Centrosinistra. Ma stavolta le cose vanno in maniera molto diversa, e non solo per motivi numerici (la rappresentanza del Carroccio si è molto assottigliata rispetto alla precedente legislatura). Tra l'altro le divisioni interne si riflettono anche in queste elezioni. Se Bossi avrebbe preferito un candidato di bandiera, Maroni ha scelto per la linea berlusconiana, senza se e senza ma. Uno dei pochi momenti in cui il Carroccio riesce a riacquistare visibilità.

Lo si è visto anche in Transatlantico. "Oggi sosterremo uno dei nostri", diceva Umberto Bossi, al suo arrivo al gruppo della Lega. Ma il presidente del Carroccio non ha preso parte alle riunione del gruppo, nel quale si è scelto di sostenere Marini, seguendo gli ordini di scuderia di Berlusconi. E infatti Roberto Maroni, governatore della Lombardia, risponde ai cronisti che "la lega vota compatta per Marini". Al Bossi e ai suoi non è rimasto altro che obbedire alle direttive. "Marini? Così dicono, io non c'ero". E poi, ancora: "Quello per Marini è un voto della politica contro l'antipolitica. E' uno che ci capisce di economia. E poi ha fatto politica in piazza e non dietro a un computer". Insomma, il senatur ha abbozzato, ancora una volta. Fino a quando? E intanto la scissione tra le due Leghe (pare sia tutto pronto) pende sul partito come una spada di Damocle.

Il leader del Pdl Silvio Berlusconi in Aula con il suo ex ministro Tremonti e alcuni parlamentari Pdl
Il leader del Pdl Silvio Berlusconi in Aula con il suo ex ministro Tremonti e alcuni parlamentari Pdl

Il quorum per eleggere Franco Marini al primo colpo era di 670 voti. L’ex presidente del Senato si è fermato a quota 521. L’intesa siglata nell’infuocata vigilia tra Bersani e Berlusconi, e suggellata dall’abbraccio in Aula tra lo stesso Bersani e Angelino Alfano, non ha retto alla prova  dei numeri. Questo il primo verdetto nella lunga maratona che porterà all’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Tutto da rifare, dunque.

Ma se il Pdl, come annunciato mercoledì, ha votato compatto per Franco Marini, il Pd invece si è spaccato al suo interno. A questo punto ogni strategia del centrodestra, dal Pdl alla Lega, e di Scelta Civica di Mario Monti dipende da quello che decide il Pd. «Il problema non è il nostro», hanno spiegato in Transatlantico diversi parlamentari pidiellini, «il cerino è in mano al Pd, sono loro che devono capire che vogliono fare». Tradotto: andranno avanti con la candidatura di Marini, per poi riprenderla dal quarto scrutinio quando basterà la maggioranza semplice (504 voti) per portarlo al Colle, o si ragionerà su altri nomi? Intanto il Pd annuncia ufficialmente che al secondo scrutinio voterà scheda bianca. Come il Pdl, che ha deciso la linea dopo un summit con Silvio Berlusconi, Lega Nord e la pattuglia dei montiani.

Sulla carta, la maggioranza per eleggere Marini venerdì pomeriggio c’è tutta. Ma Bersani è disposto ad andare avanti a costo di lacerare ulteriormente il suo partito, assediato dalle manifestazioni di dissenso dei militanti fuori Montecitorio e dal dissenso di Matteo Renzi? A questo punto potrebbe entrare in scena Massimo D’Alema, nome gradito al Pdl, oppure Romano Prodi, vero "incubo" del Cavaliere.
L’ex "lider maximo", secondo indiscrezioni della vigilia, sarebbe il vero nome su cui convergere dopo aver bruciato Marini. Prodi, invece, potrebbe essere la carta a sorpresa:«Quello che vedo è scheda bianca alla prossima votazione e poi una nuova linea per il Pd: una linea che ha un nome e si chiama Romano Prodi», ha detto il renziano Pippo Civati.
Nell'attesa di capire come muoversi, Pdl e Pd fanno melina. E Berlusconi ha lasciato Roma per partecipare ad un'iniziativa elettorale a Udine per le elezioni in programma domenica. Ora più che mai, avrebbe fatto capire il Cavaliere ai suoi, siamo in campagna elettorale.

Antonio Sanfrancesco

Marciano compatti. Sì, proprio come i celebri 44 gatti della canzone ma stavolta sono molti di più. Per la precisione, 163, così suddivisi: 109 alla Camera e 54 al Senato. Sono gli eletti del Movimento 5 Stelle, i cosiddetti “grillini”, che dopo aver scelto telematicamente chi dovrà essere il candidato alla presidenza della Repubblica, hanno esibito la loro compattezza al momento del primo, atteso, scrutinio.

Autoesclusasi dalla corsa Milena Gabanelli, e dopo di lei tramontato anche Gino Strada, il voto era tutto indirizzato verso Stefano Rodotà. Dunque, 163 voti. A questi, dobbiamo aggiungere presumibilmente i 37 deputati e i 7 senatori di Sel, che guarda caso sono proprio 44. Non gatti, sia ben chiaro. E, in tutto, portano i voti per il giurista ex presidente del Pds a 207. E fino a qui tutto bene, sempre ammesso che fra i cinque assenti della prima votazione non vi siano grillini o sellini. E sempre ammesso che la compattezza del voto non sia stata tradita da qualcuno di quei 207 cavalieri del futuro.

Bene, ma allora i 37 voti in più da dove arrivano? Ben oltre la possibilità di saperlo – anche se immaginare la ribellione di qualche eletto del Pd è facile vaticinio - resta che con i grillini ci troviamo, per la prima volta, di fronte al paradosso della rottura contraria dell’unità, della compattezza, insomma. Sì, perché un conto è mostrarsi belli e forti e uniti nella lotta e gagliardi nello stesso gruppo, altro è vedere che qualcuno li segue provenendo da un altrove non ancora ben chiaro. E dunque: come ci si trova quando non si è più da soli?

Che sensazioni dà, rispetto a riunioni più o meno carbonare a stare con altri che non sono della stessa “famiglia”? In sostanza: che farà ora il partito più nuovo della Repubblica? Beh, si sa, voterà ancora per Rodotà. Ma, allarme rosso: se i 240 voti guadagnati al primo scrutinio dal giurista dovessero diminuire? Chi sarà il colpevole? Chi si sarà sottratto alla battaglia per il “nuovo che avanza”, proprio mentre in altre case lo sfaldamento è sotto gli occhi di tutti? Per le prossime due votazioni, quelle in cui viene richiesta la maggioranza dei due terzi i componenti dell’Assemblea, quei 163 voti originari per Rodotà, pensano Grillo e i suoi, devono esserci tutti. I 44 di Sel facciano come credono, e i 37 in aggiunta vadano dove vogliono, ma l’ordine di servizio è: “Rodotà 163”! E qui il partito più nuovo rischia di assomigliare a uno dei più vecchi, anzi, già morto e sepolto, cioè a quel Pci che ai bei tempi della politica della prima Repubblica metteva in campo il proprio candidato di bandiera che non aveva alcuna possibilità di essere eletto ma che, disciplinatamente tutti dovevano votare, pena la richiesta di spiegazioni ufficiali seguite da una doverosa lavata di capo.

In quegli anni più o meno d’oro, obbedienti, andarono al massacro Terracini e Amendola. Umberto Terracini, per esempio, fu candidato di bandiera nel 1964 per i primi 12 dei 21 scrutini che poi portarono all’elezione di Giuseppe Saragat.
In quelle prime 12 tornate, l’anziano leader comunista prese rispettivamente, 250, 251, 253, 249, 252, 249, 251, 252, 250, 249, 252 e 250 voti.
E Giorgio Amendola, nel 1978, anno dell’elezione di Sandro Pertini, prese 337, 339, 335, 338, 350, 357, 358, 357, 355, 355, 354, 364, 355 e 347 voti, dal secondo al quindicesimo dei sedici scrutini. Che partito tutto d’un pezzo, caspita! Peccato che non serviva a nulla, questo sacrificale sfoggio di compattezza. Ora, sapendo che Terracini e Amendola sono stati due grandi leader del fu Pci, mandati allo sbaraglio in attesa di trattative, accordi, strizzate d’occhio, cenni d’intesa e quant’altro serviva a eleggere un presidente “equo”, non vorremmo che anche il nuovissimo partito del domani si comportasse allo stesso modo.

E cioè che, solo per mostrare la muscolare compattezza del proprio schieramento, sacrifichi Stefano Rodotà nella guerra delle schede bianche delle prossime tornate. Non per altro, ma almeno per decenza: se anche Rodotà venisse bruciato dal voto compatto e perdente, come sta facendo il Pd con Marini, i grillini dovrebbero scendere al quarto posto della loro classifica. E poi, dopo? Sempre più in basso? No, ai grillini, se davvero interessa Rodotà presidente e non stanno solo giocando un po’ a fare i protagonisti della sconfitta, converrebbe cambiare strategia: parlare, incontrare gli altri partiti, ascoltare proposte, cercare vie davvero nuove. Ma il Movimento 5Stelle sarà capace? E ne avrà voglia? O è più facile continuare così, bruciare un candidato pur di non bere alla stessa fonte degli altri partiti? E che ne pensa Rodotà?

Manuel Gandin

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