Hanno provato la paura peggiore della loro vita, di ammalarsi, di perdere i propri cari, che l’umanità finisse e a guidarli fuori da quell’incubo c’era soltanto lui. Quel Boris Johnson pasticcione, poco rispettoso delle regole antiCovid, piuttosto corrotto con la sua carta parati e la baby sitter pagati dai sostenitori del partito conservatore anziché dal suo portafoglio, ma pur sempre un vero leader. Umano, rassicurante, che mantiene le promesse. “Ho fatto la Brexit. Farò altre cose”, ha detto ai suoi elettori di quel collegio di Hartlepool, da sempre laburista, che ha conquistato in queste elezioni dimostrando, così, che la crisi dell’opposizione, che gli garantisce una maggioranza di ottanta parlamentari a Westminster è profonda e irreversibile. Non fermata dal nuovo leader Keir Starmer che molti elettori hanno definito “troppo freddo, poco pragmatico, poco efficiente”.
Gli operai inglesi delle zone ex Rivoluzione Industriale, Northumberland, Blackburn, Redditch, Dudley, Nuneaton e Bedworth gli hanno preferito un Boris Johnson grande comunicatore, come nel dicembre 2019, confermando che i Tories hanno conquistato, forse per sempre, il cosiddetto “muro rosso”, le zone più povere del nord inglese.
Le prime elezioni dell’era Covid, quelle nelle quali si è votato con tutte le precauzioni sanitarie, spesso all’aperto, magari in un parco facendo la coda per ore, hanno visto circa cinquanta milioni di cittadini britannici eleggere 143 amministrazioni comunali e provinciali, tra le quali il consiglio municipale di Londra e una parte dei consigli di Liverpool, Manchester, Newcastle e Birmingham.
A resistere allo strapotere Tory sono stati il Galles e la Scozia, facendo intravvedere quella rottura del Regno Unito che molti – tra tanti il giornalista Gavin Esler, autore del libro “Come finisce la Gran Bretagna” – ritengono inevitabile.
Anche a Cardiff e Edimburgo il voto è stato guidato dalla pandemia. I gallesi hanno ritenuto la gestione della crisi di Mark Drakeford, popolarissimo primo ministro laburista, migliore di quella di Boris Johnson e gli hanno dato la maggioranza più ampia mai ottenuta, la metà dei sessanta seggi della Senedd, il parlamento indipendente. “Plaid Cymru”, il partito dell’indipendenza, ha perso voti ma le simpatie per la separazione del Galles dalla Gran Bretagna hanno fatto un balzo, negli ultimi anni, passando dal 10% di vent’anni fa al 40% di oggi.
In Scozia queste elezioni hanno confermato che la regione è divisa a metà sull’idea di un secondo referendum per staccarsi dall’Inghilterra. Tuttavia la premier scozzese Nicola Sturgeon, che conquisterà ancora una maggioranza al parlamento di Holyrood, anche se forse non assoluta come avrebbe sperato, ha già promesso che chiamerà alle urne i cittadini. E ha sfidato Boris Johnson a trascinarla davanti alla Corte Suprema se le dirà di no. “Penso che nel 2023, appena risolta la crisi Covid, chiederò un secondo referendum e il premier britannico dovrà andare in tribunale se tenta di fermarmi”, ha dichiarato.
La più grave crisi costituzionale dal 1700, quando venne formata l’Unione di Scozia, Inghilterra e Galles, rischia di consumarsi qui nella rottura tra Londra e Edimburgo.
«Non c’è dubbio che gli elettori hanno voluto dare fiducia al governo che li sta portando fuori da questa difficile crisi», spiega Luke Coppen, giornalista cattolico, responsabile del settore Europa per l’agenzia “Catholic News Agency, «I vescovi cattolici non hanno dato indicazioni ai fedeli su come votare perché non lo fanno mai durante le elezioni locali. difficile per chi è credente trovare un partito che rappresenti le proprie convinzioni, soprattutto in materia di bioetica. I cattolici inglesi, che sono circa cinque milioni, sono i discendenti di poveri immigrati irlandesi e hanno sempre votato laburista. Oggi questo legame si è spezzato forse anche perché il partito laburista è diventato più liberale».
E’ d’accordo Christopher Lamb, che scrive per il settimanale cattolico “The Tablet” e commenta per la Bbc e altri media. “C’è una tendenza, tra i giovani cattolici inglesi, a diventare conservatori. É un movimento legalo alla crescita del nazionalismo inglese, provocato dalla Brexit, e anche del populismo del quale il premier Boris Johnson è senz’altro un esponente», spiega Lamb. «È anche difficile, in questo momento, far parte del partito laburista se sei credente perché è un ambiente molto secolarizzato. Lo scorso anno la parlamentare Rebecca Long-Bailey, che era candidata alla leadership del partito, dopo le dimissioni di Jeremy Corbyn, è stata molto criticata perché ha dichiarato di essere a favore di una riduzione del numero di settimane alle quali l’aborto è possibile e perché ha detto che era credente e pregava ogni giorno. I laburisti non si fidano di un cristiano praticante».
Tra coloro che sono stati criticati perché cattolici vi è il parlamentare laburista Jon Cruddas che ha firmato il libro “La dignità del lavoro”, appena pubblicato dalla casa editrice Polity Press.
Citando le encicliche “Rerum Novarum” di Papa Leone XIII e “Laborem Exercens” di Papa Giovanni Paolo II Cruddas dimostra che un lavoro pagato adeguatamente e vissuto in condizioni umane è il tema che può unire e rinnovare oggi il partito laburista che rischia di rimanere all’opposizione per il periodo più lungo della sua storia.
Secondo Cruddas la crisi di oggi dei laburisti è dovuta al fatto che il partito ha dimenticato la classe operaia. Tony Blair si è concentrato, per anni, sui voti dei professionisti della classe media mentre l’ultimo leader Jeremy Corbyn ha puntato su studenti e intellettuali. Oggi, in Gran Bretagna, chi ha una laurea vota laburista mentre chi non ha studiato sceglie i conservatori. Il partito di opposizione si è dimostrato vincente nelle città e a Londra ma i voti di queste classi intellettuali l’hanno allontanato dal potere.