Oggi si vota in Russia per il rinnovo del Parlamento. E
il 4 marzo si voterà per scegliere il nuovo Presidente, che sarà poi
quello vecchio: dopo l’intermezzo di Dmitrij Medvedev, al Cremlino tornerà Vladimir Putin, e forse Medvedev prenderà il suo posto di premier.
D
icono i sondaggi che al Parlamento qualcosa potrebbe cambiare: Russia Unita, il partito pro-Putin e pro-Cremlino, potrebbe perdere una cinquantina dei 315 seggi (sui 450 totali)
che controlla alla Duma, la Camera bassa; il Partito comunista potrebbe
invece guadagnarne altrettanti e arrivare intorno al centinaio rispetto
ai 57 attuali. Certo, il partito di Putin perderebbe la maggioranza
assoluta che ora gli consente di decidere ciò che vuole quando vuole, ma
non v’è dubbio che qualche alleanza ben aggiustata porrebbe rimedio
all’impaccio.
Dando per scontato che Russia Unita continuerà a governare e
Putin a comandare dal Cremlino (e adesso per almeno altri 6 anni, visto
che la Costituzione è stata modificata per dargli un mandato più lungo),
il punto vero diventa un altro: quale politica si darà la Russia per i
prossimi anni?
Anche se “solo” primo ministro, in questi
quattro anni Putin non è rimasto a guardare. Ma i risultati migliori li
ha ottenuti nel suo campo preferito: la politica dell’energia, che per
la Russia è interna ed estera allo stesso tempo. Nel 2010 gas e petrolio (comprese le tasse raccolte per estrarli ed esportarli) hanno generato il 46% degli introiti dello Stato,
una quota che negli ultimi sei anni non è mai scesa sotto il 37%.
Putin
ha affrontato la crisi finanziaria globale blindando la posizione di
grande esportatore della Russia. Ha messo sotto tutela in vario modo Ucraina e Belorussia. Ha reso Gazprom partner fondamentale nei progetti North Stream (l’altro partner decisivo è la Germania) e South Stream (con l’Italia) per
il trasporto del gas e, manovrando la leva della questione nucleare, ha
stipulato accordi con l’Iran che consentono alla Russia di non essere
tagliata fuori del tutto dai traffici energetici del Golfo Persico. Ha gettato le basi per un accordo doganale tra Paesi ex sovietici che comprende anche il Kazakhstan,
altro grande estrattore ed esportatore di gas. Insomma, sta riuscendo
nell’impresa di trasformare la Russia nell’anello fondamentale della
catena che unisce i Paesi consumatori dell’Ovest (soprattutto l’Unione
Europea) e dell’Est (la Cina in primo luogo).
Una posizione di rendita quando tutto va bene, di grosso rischio quando l’economia è in crisi.
E’ stato calcolato che per tenere in equilibrio il bilancio dello Stato
russo, il prezzo del petrolio deve restare sopra i 115 dollari a
barile. In questi giorni le contrattazioni viaggiavano poco sopra i 100 dollari e le previsioni a un anno parlano di 115-120 dollari.
Affidare parte così importante del proprio destino economico a un solo
settore significa esporsi in modo poco protetto alle incognite
dell’economia globale.
Proprio ciò che è successo nel 2008, quando il
prezzo del greggio, arrivato a circa 150 dollari a barile in luglio,
scese nel giro di poche settimane a meno di 50 dollari. Risultato: a
fine 2009 il Pil russo era crollato dell’8%.
.... Da questo punto di vista, il recentissimo ingresso della Russia
nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), anche se atteso per
ben 18 anni, rischia di complicare ulteriormente le cose. La normativa del Wto non si applica a gas e petrolio,
ma a tutto il resto degli scambi commerciali sì. E la Russia,
escludendo le materie prime, è un Paese leader in ben pochi settori.
Così i Paesi più ricchi e sviluppati sono diventati per la
Russia non più la classica “vacca da mungere” ma, al contrario, un
fattore di rischio: la contrazione dell’economia (la Banca
mondiale ha calcolato che il Pil complessivo dei Paesi ricchi sarà
cresciuto solo dell’1,6% nel 2011 contro il 2,7% del 2010) ha fatto
scendere il prezzo di gas e petrolio e quindi ha ridotto i guadagni
della Russia che però non è per questo diventata meno dipendendente
dalle importazioni che, al contrario, in questi tre anni di crisi sono
ancora cresciute.
Tutti i settori non energetici fondamentali dell’economia russa, d’altra parte, hanno subito una contrazione importante:
le costruzioni (da un più 9,6% del gennaio-luglio 2010 al 5,3% dello
stesso periodo 2011), i trasporti (dal 12,3% al 4,5%), le manifatture
(dall’11,8% al 5,8%) e così via. Tutto questo significa che la Russia
va molto bene se gli altri vanno bene (cioè, se acquistano il suo
petrolio e il suo gas) ma va molto male se gli altri smettono di andar
bene.
Una condizione particolare che esercita effetti immediati sulla situazione sociale. Nel doppio mandato da Presidente, Putin
era riuscito ad assicurare un lento ma costante miglioramento delle
condizioni di vita dei russi e una certa stabilizzazione all’intero
sistema. Negli ultimi quattro anni, però, il numero dei poveri in Russia
è rimasto di fatto inalterato (18,9 milioni di persone nel 2007, 18,6 milioni di persone oggi)
e le misure di protezione del ceto medio e dei lavoratori, adottate in
questi anni di crisi, sono state quasi totalmente erose dall’aumento
dell’inflazione e dalla mancata indicizzazione di salari e pensioni.
Così Vladimir Putin, che tornerà di certo al Cremlino, e
Russia Unita, che comunque continuerà a controllare il Parlamento dopo
queste elezioni, si ritrovano alle prese con il dilemma
che ha contrassegnato l’ultimo decennio: come inserire la Russia nel
flusso dell’economia mondiale senza scontare l’intrinseca debolezza del
suo sistema economico?
Putin, volendo escludere dal suo bilancio di
leader la questione dei diritti civili, ha lavorato piuttosto bene, ma
sempre in difesa. Proteggendo le debolezze (e di conseguenza il suo
popolo) ma riuscendo assai poco a risolverle. Tra poco vedremo se ha
qualcosa di più in mente per il suo ritorno al Cremlino.