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mercoledì 22 gennaio 2025
 
intervista
 

Elisabetta Sgarbi: «Basta con lo streaming. La cultura riparta dal vivo»

25/07/2020  La sua Milanesiana è stato uno dei pochi festival in presenza capace di arrivare anche nelle città simbolo della pandemia: «Chi lavora nel mondo della cultura ha il compito di creare contenuti prima che esista il desiderio di quei contenuti. Se non si torna a riaprire i teatri e i cinema non lo verranno certamente a chiedere gli spettatori»

Ha scritto Guia Soncini su Linkiesta che a Milano «gli intellettuali sono i primi ad abbandonare la nave che affonda». La città svuotata dalla pandemia, «così malconcia e sconfitta che sembra Novara», per citare l’aura mediocritas della provincia media italiana, non attrae più. Ma è troppo facile andarsene ora, scrive la Soncini, «in questa Milano che sembra improvvisamente una provincia – una provincia come una sconfitta, una provincia coi prezzi da metropoli».

Chi non se n’è andato, anzi è rimasto e ha rilanciato è stata Elisabetta Sgarbi. Regista, scrittrice, a capo de La Nave di Teseo (la casa editrice che furoreggia in classifica con Joel Dicker e ha pubblicato il Premio Strega di quest’anno, Il Colibrì di Sandro Veronesi), inventrice e animatrice infaticabile de La Milanesiana. Quando nessuno, durante il lockdown, osava immaginare che gli eventi culturali avessero ancora un futuro, almeno per quest’anno, con il pubblico in presenza, gli applausi a scena aperta, i fischi, il dietro le quinte e tutte quelle cose che rendono bella la cultura perché incarnata, viva e capace di emozionare, la Sgarbi zitta zitta se ne stava a Ro Ferrarese, la casa-museo dei genitori in riva al Po, e progettava per il ventunesimo anno consecutivo il festival che porta la città nel nome. Non in streaming, come ormai ci siamo abituati, ma dal vivo. Alla fine, come sempre, ce l’ha fatta: oltre 40 incontri, 115 ospiti italiani e internazionali, 5 mostre, eventi in 14 città, da Lodi e Casalpusterlengo, le città-simbolo della pandemia dove tutto è cominciato, a Bormio, Pavia e Monza. E poi Ascoli Piceno, Villafranca di Verona, Napoli fino alla Romagna dall’eco felliniana: Gatteo a Mare, Forlimpopoli, Pennabilli, Cervia-Milano Marittima. Tema di questa edizione, scelto da Claudio Magris, “I colori”. Quasi una sfida ottimistica al grigio che stiamo vivendo (e che vivremo ancora). I colori dell’arte, della musica, della letteratura, del cinema e delle contaminazioni tipiche della Milanesiana (al Madre di Napoli, per dire, fino al 1° novembre c’è la mostra fotografica sulle nuvole di Carlo Verdone). E poi la prima assoluta, il 27 luglio a Palazzo Reale, dello spettacolo Questo virus che rende folli di e con Bernard-Henri Lévy e con la partecipazione straordinaria di Andrea Bocelli. Senza dimenticare la lectio di Vittorio Sgarbi su I tesori artistici di Lodi, Codogno e Casalpusterlengo.

Insomma, ce l’ha fatta anche stavolta.

«Direi proprio di sì».

Che bilancio fa di questa edizione particolare della Milanesiana attesa ora al rush finale in Emilia Romagna?

«Avere realizzato una Milanesiana che viaggi fisicamente in 14 città, che dura oltre un mese, che ha riportato gli artisti a esibirsi davanti a un pubblico che finalmente è tornato a popolare gli spazi della cultura lo considero un risultato straordinario».

(Un evento della Milanesiana 2020 al Castello Sforzesco di Milano)

La gente che ha incontrato in queste settimane sente la necessità di tornare agli eventi culturali in presenza o si è assuefatto e, magari per paura, preferisce lo streaming?

«Chi lavora nel mondo della cultura ha il compito di creare contenuti prima che esista il desiderio di quei contenuti. Sono i contenuti a generare la domanda non viceversa. Se non si torna a riaprire i teatri, i cinema non lo verranno certamente a chiedere gli spettatori. Bisogna un po’ farla finita con questo dilagare di streaming, soprattutto nella scuola, e riprendere una vita di comunità».

E gli artisti coinvolti? Come hanno reagito in quello che per molti è stato un ritorno allo spettacolo dal vivo dopo lunghi mesi di pausa?

«Mi hanno ringraziato. Per quasi tutti, era la prima esibizione dopo mesi. Avevano l’emozione di un debutto. Per un artista è vitale l’incontro con un pubblico, altrimenti uccidiamo un sistema».

Come ha fatto a convincere Carlo Verdone a fare una mostra sulla sua attività di fotografo con la passione per le nuvole?

«Glielo abbiamo proposto con Paolo Mereghetti: all’inizio era molto dubbioso, poi si è convinto che era possibile e opportuno. La Milanesiana spesso sollecita gli artisti a rivelare al pubblico aspetti meno noti. Poi Carlo Verdone è un artista totale: regista, scrittore, fotografo, musicista e chissà cos’altro ancora».

Ha deciso di portare la Milanesiana anche nel Lodigiano, la prima zona rossa d’Italia. Come mai questa scelta? Da figlia di farmacisti ha sentito particolarmente la pandemia?

«Anche a Villafranca di Verona, altro luogo simbolo del Covid-19. Rischiamo di bollare città meravigliose con un virus perché la comunicazione televisiva genera questi equivoci. Volevo portare la bellezza in quei luoghi: non una bellezza astratta, ma incontri con contenuti importanti».

Che futuro avranno i festival culturali in Italia in presenza visto che lei è stata la prima a organizzarne uno nel post Covid?

«Io confido che ci sia il coraggio di lavorare nello stesso senso, per riportare il pubblico nei luoghi della cultura e gli artisti a esibirsi fisicamente. È vitale per l’economia della cultura riappropriarsi di questa dimensione: per un artista che si esibisce ci sono centinaia di persone che lavorano. Se vogliamo evitare una tragedia occupazionale nel mondo della cultura dobbiamo avere un po’ di coraggio e prenderci qualche rischio».

Che futuro ha la cultura a Milano azzoppata da questa tragedia? Può aiutare, e in che modo, la ripartenza della città?

«Milano ha fatto un investimento importante nella cultura: la cultura crea lavoro, ha un proprio indotto economico e industriale molto importante che, peraltro, incrocia l’indotto del turismo. Noi parliamo di turismo come se gran parte del turismo non fosse turismo culturale; ma la cultura ha anche un valore immateriale inestimabile: una comunità che sa, approfondisce, s’informa reagisce meglio in tutti i campi della vita pubblica, economica e politica. È una ovvietà. E infatti il comune di Milano e la Regione Lombardia, dopo l’emergenza, hanno voluto subito mettere in moto questo settore: la Milanesiana si fa anche perché ci sono risorse pubbliche, oltre che private. E perché Milano ha messo a disposizione dei luoghi per farla».

La rosa simbolo della Milanesiana

Dove ha trascorso i mesi del lockdown? Oltre alla Milanesiana, a quali altri progetti ha lavorato?

«A Ro Ferrarese, dovendo stare nella farmacia di cui sono titolare. Ho prodotto GiraGiroGiraGi, la sigla del prossimo Giro d’Italia, degli Extraliscio. Un progetto molto ampio che ho diretto con Rcs Sport: oltre alla sigla, ho curato anche il manifesto del Giro, che ho chiesto a Franco Matticchio».

Che significato ha avuto portare i colori della Milanesiana in Emilia, nelle Marche, in Veneto, in Campania. Qual è la “lezione” sulla cultura che Milano può dare al resto del Paese per questa stagione di ripartenza?

«La città nell’Ottocento e nel Novecento ha significato creazione, è stata città di novità e di diffusione di cultura. E tutt’ora lo è. La Milanesiana asseconda questa natura di Milano».

Cosa ne pensa di Renato Pozzetto che interpreterà suo papà nel film di Pupi Avati tratto dal libro Lei mi parla ancora?

«Ne sono molto lieta: mio padre aveva un’aria sospesa, ironica, sarcastica molto pronunciata. Pozzetto potrebbe interpretarla bene».

È vero che Cairo vorrebbe entrare ne La Nave di Teseo con Rcs come nuovo socio? Sta cercando nuovi soci per la sua casa editrice che quest’anno ha pubblicato il vincitore del Premio Strega?

«Assolutamente no, non è vero. L’autore della notizia deve avere frainteso la collaborazione della mia Fondazione con RCS Sport sul Giro d’Italia. E poi saltuariamente escono fuori queste notizie, senza fondamento, che ci danno in cerca di grandi gruppi».

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