Col suo primo film interamente girato oltreoceano e in lingua inglese, Paolo Virzì raccoglie alla Mostra qualche risata e parecchi appalusi dagli addetti ai lavori. Ella & John (The Leisure Seeker) è piaciuto a quasi tutti. Anche se, in quel quasi, si nascondono le pieghe di qualche giudizio più severo (soprattutto di critici americani) e la sorpresa di certi italiani abituati alle storie sanguigne, piene di personaggi, dolci e amare con cui il regista livornese ha saputo giustamente ritagliarsi il ruolo di vero erede della commedia all’italiana. Quello portato in concorso al Lido (e in uscita a gennaio in Italia, mentre negli Usa sarà nelle sale a dicembre nella speranza di concorrere agli Oscar) è senz’altro il film più intimista da lui finora diretto. Abbandonata la coralità di pellicole come Ovosodo, La prima cosa bella, Il capitale umano, stavolta punta dall’inizio alla fine la cinepresa solo sui due personaggi del titolo: Ella, lucidissima e testarda malgrado un cancro se la stia portando via e suo marito John, un tempo fascinoso professore di letteratura adorato dagli studenti e ora incanutito e svanito per colpa dell’Alzheimer. E sono le stupende interpretazioni dei protagonisti, la britannica Helen Mirren e il canadese Donald Sutherland, ed innalzare Ella & John dallo status di buon film, che scorre forte e prevedibile come un fiume verso la foce, a titolo assolutamente da non perdere quando uscirà al cinema. Nei panni di Ella, così frizzante di vitalità da non poter fare a meno del compagno di una vita malgrado la malattia, la Mirren offre una prova di toccante intensità. Mentre la leggerezza di Sutherland, nell’ incarnare gli slanci improvvisi e gli svaporamenti di un uomo mai banale, è prova di un virtuosismo che meriterebbe l’Oscar finalmente. O almeno la Coppa Volpi di questa Mostra.
I due anziani coniugi, che le prescrizioni mediche avrebbero dovuto presto separare per far fronte ciascuno alla propria malattia, partono senza avvertire nessuno. A bordo del vecchio camper (soprannominato The leisure Seeker: il cercatore di tempo libero) con cui, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, avevano girato gli Stati Uniti assieme ai figli piccoli. Quegli stessi che, ora adulti, restano con un palmo di naso al gioioso annuncio telefonico della mamma (“Stiamo facendo un viaggetto”) non sapendo come riacciuffare i fuggiaschi. Ma poi ne varrebbe la pena? E’ chiaro che, smemorato uno e dolorante l’altra, entrambi viaggiano alla ricerca dei bei tempi vissuti insieme. Il percorso è deciso: dal Massachusetts alla Florida per visitare a Key West la casa dove si suicidò Ernest Hemingway, l’idolo letterario di John. La sorpresa è che il vecchio Virzì ci avrebbe fatto scoprire i personaggi mediante l’interazione col mondo esterno, da lui sempre tratteggiato con amara lucidità. Qua invece la nascente America di Trump, arrabbiata contro i rifugiati e orgogliosa di rozze radici, resta sullo sfondo. Conosciamo Ella e John attraverso i dialoghi, le reciproche confessioni, perfino le insospettabili sorprese che sgorgano dai ricordi o dalle crepe di parole messe in un ordine invece che nell’altro. Fino al finale tragico ma dolce, che se non si può giustificare dal punto di vista morale si può certo cercare di comprendere sul piano umano.
“Il mio film non è solo sulla vecchiaia”, sottolinea Virzì. “C’è la fuga da un destino obbligato in ospedale. C’è il ripercorrere il senso di una vita da parte dei due coniugi anche attraverso bisticci affettuosi. C’è la libertà e la dignità che li porterà ad un gesto estremo al di là delle consuetudini morali, delle leggi e delle polizze sulla salute”.
Ha scritto il copione con Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e Stephen Amidon (l’autore de Il capitale umano). Che cosa è travasato, di noi italiani, nella sceneggiatura?
“Direi che da storia prettamente americana ci si è aperti verso una storia universale grazie alla sensibilità, prettamente nostra, per temi come gli sprazzi improvvisi di felicità, la gelosia, il tradimento. E poi questo viaggio americano sulla Route 1 ha lo stesso numero della statale Aurelia, che tante volte ho percorso per andare dalla mia Toscana a Roma”.
Com’è nato il film?
“Come spesso accade, dall’innamoramento per un libro: l’omonimo romanzo di Michael Zandoorian. Nelle vene mi è finito lo spirito ribelle e sovversivo che anima i due vecchi protagonisti di quelle pagine. Ma non si tratta di un’ideale continuazione de La pazza gioia. Comunque, era un progetto complicato, da girare negli Usa. Allora l’ho sparata grossa, ho detto ai produttori: accetto solo se ci sono Mirren e Sutherland. Così non si sarebbe fatto mai. Invece loro hanno detto di sì”.
E la decisione di gareggiare alla Mostra?
“Ero già venuto in concorso vent’anni fa con Ovosodo. Allora partecipai con leggerezza scanzonata: non mi aspettavo nulla. Curiosamente, adesso sono più fragile. Mi preoccupo. La notte della vigilia non ho chiuso occhio. Pensavo: non avrò fatto una cavolata a portare il film a Venezia? Il fatto è che la mia ispirazione nasce dal privato, anche quando si tratta di morte e dolore che trasformo in racconti cinematografici lontani. Il guaio è che puoi scappare dal tuo Paese e dalla tua lingua, ma mai da te stesso”.
Lei condivide la scelta finale di Ella e John?
“Non è facile rispondere. L’idea è riuscire a vivere anche malconci ma con libertà. Senza rimanere ostaggio neppure delle persone care, dei figli. La libertà può essere dolorosa”.
Esiste ancora il sogno americano vagheggiato dal cinema?
“Quando Fellini vinse l’Oscar disse, con quel suo inglese che sapeva di romagnolo, che il cinema e l’America erano quasi la stessa cosa. Oggi no. Per gli Stati Uniti è un momento davvero buio: si predica l’odio, si costruiscono muri”.
(Foto in alto: Ansa)