“La verità è raramente pura e non è mai semplice”. Il regista Roberto Faenza nel suo film La verità sta in cielo dedicato al rapimento di Emanuela Orlandi mette in “esergo” una frase di Oscar Wilde. La verità non è mai semplice. Ma in questo caso non ci pare di scorgere una particolare complessità nel leggere in chiaroscuro il labirinto degli eventi di una delle pagine più oscure e dolorose della storia d’Italia. Della vicenda della ragazza quindicenne, figlia di un commesso della Famiglia Pontificia e cittadina vaticana, scomparsa il 22 giugno 1983 dopo essere uscita da un istituto di piazza Sant’Apollinare, a due passi dal Senato, dove andava a lezione di musica, sono dedicate poche scene. Raccontano l’angoscia in cui precipita la famiglia e gli ostacoli riscontrati fin dalle prime ricerche, anche perché Emanuela è cittadina vaticana. Faenza preferisce concentrarsi sulla trama delle indagini e sceglie la tesi precostituita. Delle decine di piste inseguite dagli investigatori in oltre 30 anni di inchieste, tutte concluse con un nulla di fatto, il regista intreccia quelle che finiscono direttamente dentro il Vaticano. Le più improbabili, ma anche le più adatte a costruire una trama inevitabilmente ideologica e anticlericale.
Emanuela Orlandi
La prima ipotesi si basa sostanzialmente sulle dichiarazioni di un pentito della banda della Magliana (Antonio Mancini, "Nino l'Accattone", il "Ricotta" di Romanzo Criminale), giudicato inattendibile da più corti d'Assise, secondo il quale la povera Emanuela fu rapita per far pressione sulla restituzione di capitali mafiosi della Magliana affidati allo IOR di Marcinkus. Ipotesi che aveva formulato in un'intervista anche il giudice Rosario Priore, teorizzando che quei soldi (una ventina di miliardi di lire), prestati a usura dalla Magliana allo IOR, sarebbero stati impiegati per finanziare Solidarnosc. In pratica la Santa Sede per finanziare la buona causa del sindacato polacco di Walesa avrebbe chiesto soldi ai cravattari della Magliana. E dunque alla fine sarebbero stati i borgatari malavitosi di Romanzo Criminale - con le loro ingenti risorse, da "Er Ricotta" al "Libanese" - i veri inconsapevoli artefici dell'Ostpolitik vaticana che fece crollare la cortina di ferro e i regimi comunisti dei Paesi dell'Est. Ipotesi - con tutto il rispetto - che ci permettiamo di definire "ardita" e che i romani liquiderebbero con ben altre espressioni.
La seconda ipotesi attinge alle rivelazioni rilasciate alla giornalista di Chi l’ha visto Raffaella Notariale da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano e poi donna di Renatino De Pedis, il potente boss dei “Testaccini” (una costola della Magliana), interpretato da Riccardo Scamarcio. Le rivelazioni della donna - definite inattendibili e incongruenti dalla Procura e dal gip di Roma - sono finite in un libro, Segreto Criminale, a cura della giornalista, che nel film compare come una cocciuta eroina dedita alla missione scrupolosa della verità.
Piste che non hanno avuto seguito da parte della Procura di Roma, come tutte le altre del resto, compresa forse la più concreta, quella del finto rappresentante di una ditta di cosmetici che offre un lavoretto alla povera ragazza (che ne parla alla sorella in una telefonata prima di scomparire per sempre). L’uomo non è mai stato trovato. Dopo di che esplose il polverone celeberrimo dei Lupi Grigi di Alì Agca, in cui si infiltrò persino la Stasi. Ma potremmo andare avanti a lungo. 33 anni di indagini. La Cassazione lo scorso maggio ha recentemente messo la pietra tombale sulla vicenda Orlandi, archiviando l’inchiesta su richiesta della Procura, nonostante le indagini siano state “estremamente complesse e approfondite”, come scrive il gip accogliendo le richieste del procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone.
Ne La verità sta in cielo si è preferito ricostruire le presunte responsabilità del Vaticano nel sequestro di una cittadina vaticana, pescando nel torbido e mescolando prelati, porpore, malavitosi, cortigiane, faccendieri, grandi affaristi, mafiosi e il solito repertorio di sacro e profano, lo stile "angeli e demoni" che ormai da decenni ruota intorno allo IOR. Un grande classico, potremmo dire, quasi un genere letterario.
Una scena del film
Ad alimentare questo genere “noir” che ruota intorno al Torrione Niccolò V, dove ha sede lo IOR, sono state le vicende opache realmenteavvenute e comprovate, come la compartecipazione dell'Istituto per le Opere di Religione nel crack dell’Ambrosiano e il riciclaggio della maxitangente Enimont. Ma bisognerebbe sempre ricordarsi del motto che compare sotto la testata dell’Osservatore Romano, ripreso da Sciascia per un celebre giallo: “Unicuique suum”, “A ciascuno il suo”. Insomma, accertare le responsabilità e i fatti, discernere il grano dal loglio, distinguere il vero dal verosimile. E lo IOR è il luogo per eccellenza dove si incontrano il vero e il verosimile. Quanto ai pentiti, è noto che spesso mescolano verità e menzogne, a volte dicono il vero, soprattutto su fatti di cui sono stati protagonisti o testimoni diretti, a volte millantano. il "sentito dire" è una loro specialità. Lo sanno tutti gli investigatori e i sostituti procuratori del mondo. Lo sanno certamente le Procure di Roma e di Palermo. In altri ambienti, come nel giornalismo e nel cinema, lo si sa un po’ meno. Si preferisce indulgere nel conformismo mainstream che descrive lo IOR a metà tra un paradiso fiscale e una centrale di riciclaggio, una “money laundry” permanente.
Nel Padrino Parte Terza il prelato “Gilday”, ispirato a Marcinkus, garantisce alla “famiglia” Corleone il riciclaggio degli introiti criminali dei picciotti. Ma non c’è solo il cinema, naturalmente. Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino (che la procura di Caltanissetta si prepara a processare per calunnia contro l’ex capo della polizia de Gennaro) ha detto che il padre riceveva i mafiosi dentro il Torrione Niccolò V e che tra quelle mura, spesse nove metri, è custodito il famigerato papello della trattativa Stato-mafia. Nel 1994 il pentito di mafia Vincenzo Calcara rivelò ai giudici di Marsala che dieci miliardi di lire di allora, provenienti da traffici illeciti legati a Cosa nostra furono riciclati con la complicità di prelati vaticani e di due deputati regionali siciliani. Andò così, secondo Calcara. Nel 1981, “prima dell’attentato al Papa” da Castelvetrano furono spediti a Roma dieci miliardi, prelevati dall’abitazione del boss Francesco Messina e sistemati in un paio di valige poi caricate su due auto. “Quando arrivammo a Fiumicino”, sempre nella testimonianza del pentito, “ad attenderci c’erano tre macchine di grossa cilindrata con a bordo il cardinale Marcinkus ed un altro cardinale”. I soldi furono trasportati sulle automobili degli eccellenti prelati, che andarono via. Sgommando. Ecco qua una bella suggestione hollywoodiana per il prossimo film sullo IOR.
I manifesti di Emanuela diffusi qualche giorno dopo la sua scomparsa
Dunque viene spontaneo indulgere al genere noir, di cui vi è un’ampia letteratura con pretese di saggistica, a cominciare dalla madre di tutti i Vatican noir, il libro In nome di Dio del giornalista David Yallop (sei milioni di copie vendute in tutto il mondo), il cui assunto paranoico è che papa Luciani è stato ucciso da un complotto in stile Borgia che passa da Marcinkus, Calvi, il cardinale Villot e Licio Gelli. Pensare che basterebbe guardare le sue cartelle cliniche per capire come era messo il povero cuore malfermo di papa Luciani e gettare alle ortiche il best seller di Yallop, (dove non è citata esattamente nemmeno la data di nascita dello IOR).
È stato Yallop per primo a dipingere l’americano Marcinkus come una sorta di gangster in clergyman educato alla scuola di Al Capone semplicemente perché era nato nel suo stesso quartiere, Cicero (interpretazione alla C'era una volta in America prontamente riportata nel film). Il che, se ci pensate, equivarrebbe dare del mafioso a qualunque palermitano nato a Brancaccio. Marcinkus è stato certamente un prelato facilone, avventato e incompetente “la persona sbagliata nel posto sbagliato”, come diceva di lui Cossiga (che di queste cose se ne intendeva per essere stato grande amico del prelato dello IOR Donato De Bonis). Il monsignore americano partecipava alle Bahamas al consiglio di amministrazione delle società che Calvi muoveva, senza probabilmente capire fino in fondo la “follia panamense” del banchiere milanese che aveva prosciugato il Banco Ambrosiano (lo si vede ben rappresentato nel film I banchieri di Dio, un buon film di Giuseppe Ferrara, del 2002, per capire le vicende dell’Ambrosiano).
Il cardinale Agostino Casaroli con Giovanni Paolo II
Marcinkus deve aver commesso molti peccati di omissione, come diceva di lui l'allora segretario di Stato Agostino Casaroli (ritratto nel film come un depresso in preda agli psicofarmaci per via dell’ostilità del prelato americano) e come sostenevano porporati come Martini e Benelli (i quali hanno chiesto a Casaroli più volte la sua rimozione dall'istituto vaticano). Ma l'ex presidente dello IOR è morto in miseria come viceparroco in un paesino dell’Arizona, Sun City. Quando venne operato alle anche, chiese un prestito allo IOR di diecimila dollari, tramite il parroco. Quanto allo IOR, l'istituto non intascò una lira dei 1300 miliardi di dollari sottratti all’Ambrosiano, la responsabilità dei suoi vertici fu quella di fare da sponda al gioco di Calvi per far uscire dall'Italia un flusso enorme di denaro e immetterlo nella rete delle sue società estere, intascando le relative commissioni. Responsabilità non da poco, per un ente ecclesiastico come lo IOR, chiamato ad amministrare il patrimonio della Chiesa a fini religiosi e missionari. E infatti Casaroli volle egualmente transare una grossa somma (circa 250 milioni di dollari) con le banche creditrici a titolo morale (passò alla storia come "Accordo di Ginevra"). Per reperire la cifra l'istituto dovette liquidare gran parte del suo capitale azionario e ridurre il fondo pensioni dei dipendenti.
Il fatto è che la personalità rude e sprezzante di Marcinkus, detto "il gorilla" per via del fisico e del fatto che facesse da body guard ai Papi, sembrava fatta apposta per costruirci sopra il personaggio del mafioso, che è divenuto la sua "damnatio memoriae". E Faenza, regista ma anche sceneggiatore di La verità sta in cielo, che ha pretese di docu-fiction, non sfugge alla regola. “Hi, De Pedis, ho ricevuto il bonifico”, gli fa dire rivolgendosi al boss testaccino - che verrà ucciso in agguato della banda della Magliana - mentre si svolge la solita festa di prelati, politici e malavitosi, nella cornice di un sontuoso palazzo romano.
Anche l’episodio del funzionario dell’Fbi William Lynch, capo dell’Organised Crime and Racketeering section del Dipartimento di Giustizia Usa venuto in Vaticano con alcuni colleghi dell’Fbi per interrogarre Marcinkus circa il presunto riciclaggio di falsi titoli azionari per il valore di 14 milioni e mezzo di dollari di allora, è una vicenda raccontata da Yallop, il grande abbeveratoio del filone “Vaticano Incorporated”. Peccato che non sia mai stato provato nulla e si basa sulle dichiarazioni dei truffatori americani, a cominciare dal noto faccendiere Mario Foligni. Così come pesano dubbi di autenticità sulla lettera, citata nel film, che Calvi scrive a Giovanni Paolo II ricordandogli di aver sovvenzionato Solidarnosc (ma - detto per inciso - dei finanziamenti a Solidarnosc non c’è mai stata traccia da nessuna parte nonostante sia ormai stata detta tante di quelle volte da faccendieri, giornalisti e pseudoscrittori che è ritenuta ormai una verità, a furia di ripeterla). La lettera, che nel film viene dattiloscritta da Calvi con il suo sinistro e minaccioso ticchettio, in realtà non sarebbe stata scritta dal banchiere milanese, ma fu un’iniziativa del suo entourage per cercare di dargli maldestramente una mano, con l’utilizzazione di fogli bianchi firmati in precedenza dal banchiere, che ormai era smarrito e aveva perso totalmente la bussola. Lo rivelò un giornalista del periodico filomissino Il Borghese, Francesco Caridi, al sito Dagospia: «Seppi da una fonte attendibilissima (immaginatevi quale ndr) che quella lettera era stata scritta a macchina occasionalmente in un ufficio nei pressi di Piazza Rondanini a Roma e quindi affidata al vescovo Pavel Hnilika (che aveva l'ufficio in via dell'Anima, nello stesso palazzo in cui l'aveva Carboni, vai a vedere alle volte le combinazioni ndr), forse tramite Marcinkus. Se si facesse una comparazione con alcune lettere autentiche di Calvi, si vedrebbero tra l’altro le differenze lessicali». Una delle tante bufale che girano intorno allo IOR e al Vaticano, come l’ormai riconosciuta “sola” della lista dei 121 ecclesiastici massoni pubblicata dalla rivista OP di Mino Pecorelli, fabbricata in ambienti vicini ai servizi segreti, in cui compaiono il segretario di Stato Jean-Marie Villot, monsignor Pasquale Macchi, il cardinale Ugo Poletti, don Virgilio Levi e il povero Casaroli. Naturalmente c’è anche Marcinkus, matricola 43/649, nome in codice “Marpa”. Poteva mancare?
Disegnata la cornice del film, ecco entrare in scena la povera Sabrina Minardi, l’ex moglie del calciatore Bruno Giordano poi divenuta amante del boss De Pedis , ex tossicodipendente, già ricoverata in un reparto psichiatrico per tentato suicidio. La "supertestimone" tra l'altro è stata giudicata inattendibile dal gip Giovanni Giorgianni, che ha recepito la richiesta di archiviazione dell'inchiesta da parte della Procura, non essendo stata in grado di fornire indicazioni precise sul luogo "dove era avvenuto il disfacimento del cadavere". Le dichiarazioni della Minardi raccolte dalla Notariale (sulla cui attendibilità rimando anche agli articoli su blitzquotidiano.it di Pino Nicotri, che riporta anche il contenuto delle intercettazioni telefoniche tra la giornalista Notariale e la Minardi) si intrecciano al grande ginepraio di "dritte" telefonate anonime, dichiarazioni clamorose e quant'altro, offerte da mitomani vari, alcuni dei quali denunciati per autocalunnia, mai comprovate, come quelle che le ossa della ragazza giacessero nella stessa tomba di De Pedis, nella Chiesa di Sant’Apollinare (come è noto, non si trovò niente). La Minardi, oltre a sostenere che Emanuela fu uccisa e gettata in una torbiera, sostenne che Marcinkus e Roberto Calvi frequentavano un giro di prostitute e festini a base di sesso, droga (e forse rock and roll) cui partecipavano altri prelati e persino il segretario di Stato Agostino Casaroli, uno dei principi della Chiesa di tutti i tempi, l’uomo dell’Ostpolitik vaticana. Ma del coinvolgimento di Casaroli frequentatore - a detta delle fantasmagoriche rivelazioni della Minardi - di orge e festini – anziché della sua comunità romana dove si rifugiava a tarda sera, dove assisteva, tra gli altri, i ragazzi del carcere minorile di Casal Del Marmo - il film di Faenza non parla, si ferma a Marcinkus e Calvi (che – sia detto sempre per inciso - sarà stato anche un riciclatore e un bancarottiere, ma tutti conoscevano come un uomo riservato e fedele alla moglie, legatissimo alla sua famiglia). Comunque Faenza questa parte del libro della Minardi la omette. Forse perché a quel punto, leggendo le cose irriferibili su Casaroli lo spettatore avrebbe potuto cominciare a sospettare che il quadro offerto dal film fosse un tantino esagerato. A proposito del segretario di Stato, la nipote Orietta, custode delle sue memorie (che tra l'altro, ironia della sorte è psicoterapeuta), mi ha detto che suo zio tutto poteva essere tranne che un depresso, essendo un diplomatico pacato ma dotato di un carattere d'acciaio (requisito indispensabile, tra l'altro, richiesto ai segretari di Stato). Ma in fondo bastava chiedere a chiunque lo avesse conosciuto.
Il regista Roberto Faenza
Tra tanti demoni nel film compare e scompare qualche angelo, nei panni immaginari di un anonimo prelato o di un reverendo che gioca a rimpiattino. Questi prelati "buoni" sono una sorta di "deus ex machina" cinematografico per sostenere l’assunto del film, che è quello di una Chiesa “pre” e una Chiesa “post” Bergoglio, una rigorosamente opaca, torbida e corrotta, l’altracarica di speranza, che poi è l’interpretazione conformista mainstream di molti laici che la Chiesa non la conoscono e soprattutto non la capiscono. Nel dialogo immaginario (che il regista però assicura essersi verificato davvero, e concediamoglielo pure) tra un cardinale e un procuratore su un presunto dossier Orlandi custodito entro le Mura Leonine, il film suggerisce che la verità non stia in cielo ma in Vaticano. Il che sarebbe gravissimo, anzi mostruoso, perché presuppone il fatto che la Santa Sede sapeva la verità sulla povera Emanuela ma non l’avrebbe mai rivelata nemmeno in camera caritatis ai poveri genitori e ai fratelli, straziati da tanta pena. «Nel Paese delle menzogne per arrivare alla verità bisogna passare da molti bugiardi», dice il prelato immaginario "buono" durante il film. Ma siamo sicuri che i bugiardi, più che in Vaticano, non stiano tra le "fonti" cui ha attinto il regista-sceneggiatore? Quel che è a nostro avviso è certo, è che il film - nonostante i bugiardi - dalla verità è molto distante.