Sopra: un bambino guarda incuriosito attraverso delle travi. In alto e in copertina: Emanuele Marzi in un'immagine realizzata nell'ambito dei progetti Maison Des Enfants ONLUS - MA.D.E. Per gentile concessione.
Da un po’ di tempo alcuni suoi amici hanno iniziato a chiamarlo “il fotografo degli ultimi”. «Ne sono onorato» dice lui «anche perché spesso quelle persone che il mondo chiama “gli ultimi” sono, in realtà, piene di ricchezze e risorse interiori». Emanuele Marzi, fotografo, 43 anni, romano, ha maturato una speciale sensibilità per le storie di chi vive ai margini. E se oggi l’attenzione internazionale è, com’è naturale, molto concentrata sull’Ucraina, Marzi ci aiuta, con la sua testimonianza, a non dimenticare quegli altri tantissimi angoli di mondo che ignoriamo e che magari tendiamo a censurare, per paura, per reprimere uno strisciante senso di colpa, o semplicemente per pigrizia. E’ esattamente lì che Marzi ci conduce, con i suoi scatti: in una bidonville di Antananarivo (Madagascar) o nell’ospedale di uno sperduto villaggio in Burundi. Ma la sorpresa più grande è scoprire che, nella povertà più assoluta e in mezzo ai drammi di esistenze costantemente messe alla prova, fioriscono i sorrisi. E a tratti si respira una vitalità che forse a noi è sconosciuta.
Una delle prime esperienze di contatto con “l’altro mondo” inizia, per Marzi, nel 2017, quando, attraverso alcuni amici, entra in contatto con l’associazione Maison des Enfants (Made), che opera in Madagascar, a sostegno dei bambini e delle famiglie più povere, offrendo assistenza medica, istruzione e luoghi sicuri in cui crescere. «Ho scoperto che c’era la possibilità di collaborare, per un progetto fotografico, e immediatamente mi sono reso disponibile a partire». Quell’isola dove miseria e bellezza si scambiano di posto a ogni passo gli resterà nel cuore per sempre. «Ho visto la tenacia e la delicatezza con cui i volontari dell’associazione aiutano bambini e famiglie: qualcosa di incredibile. E ho conosciuto tanta gente alla quale ora mi sento legato. Ci sono mamme, nonne, zie, famiglie intere che mi hanno aperto le loro case, anche se ciò che loro chiamano “casa” in realtà è una poverissima baracca in una bidonville labirintica e sovraffollata, ai margini di Antananarivo. Hanno fatto questo per me, un perfetto estraneo, per di più munito di macchina fotografica: aprirmi casa loro, con accoglienza e un enorme senso della dignità».
Baraccopoli di Antananarivo (Maagascar). Foto di Emanuele Marzi. Per gentile concessione.
Accostarsi alla fragilità, alla povertà, al disagio e doverli raccontare, da dietro a un obiettivo, può essere difficile. «Ci sono confini sottili come fili» osserva Marzi «E può bastare poco per attraversarli, con conseguenze drammatiche. Per questo serve, innanzi tutto, prudenza, ricordando sempre di essere un ospite, per evitare di rompere equilibri fragilissimi e mettersi inutilmente in pericolo. E poi ci vuole la sensibilità per capire l’altro. A volte, incrociando certi sguardi, percepisci nettissima una richiesta implicita: “Non farmi la foto”. In quei casi abbassi l’obiettivo, non scatti e vai oltre». Ma ci sono anche scintille che invece si lasciano guardare e cogliere: «penso ai sorrisi dei bimbi, ai loro occhi pieni di luce, agli sguardi curiosi che spuntavano da ogni parte, anche dietro le assi di legno delle baracche, per osservarmi».
Altro contesto, altra esperienza forte. «In un viaggio successivo ho seguito un’equipe di ortopedici che lavora in diversi ospedali in Burundi. Lì si incontrano situazioni che per noi europei sono perfino difficili da immaginare. Ci sono persone (tra loro anche bambini, soli) che percorrono giornate di cammino, a piedi, dai villaggi più sperduti, per arrivare al centro di cura, l’unico in un’area vastissima. E una volta arrivati devono attendere il loro turno, magari per altri giorni, in coda. E’ un bagno continuo nella sofferenza: ferite, malformazioni, traumi, quasi sempre molto gravi. Non ci si può fermare, non c’è tempo per metabolizzare». Perché rivolgere lo sguardo a un’umanità così provata? «Per dare uno spiraglio di voce a chi non ne ha mai avuta». Ma quel viaggio in Burundi ha regalato a Marzi anche altre esperienze. Tra le più intense c’è «l’incontro con una delle ultime tribù di pigmei presenti nel Paese. A un certo punto la vegetazione si è aperta e mi sono ritrovato in mezzo a bimbi che sorridevano. Continuavo a chiedermi come facessero a essere lì, da dove fossero sbucati. Poi ci sono stati battiti di mani, danze e canti per accogliermi, guidati dalla donna più anziana. Può sembrare assurdo, ma in quel momento mi sono sentito parte della loro comunità».
Per spiegarsi meglio, Marzi riferisce un dettaglio. «Per molti anni ho portato con me una medaglietta che aveva impressa un’immagine sacra. La tenevo in tasca, ovunque andassi, e ci ero molto affezionato, al punto che se un giorno la dimenticavo a casa, accorgendomene sentivo un sottile velo di tristezza. Dopo la visita ai pigmei, a sera, quando ormai ero lontano, infilando la mano in tasca mi sono accorto che avevo perso la medaglietta: probabilmente mi era scivolata mentre mi distendevo a terra, per fotografare i membri della tribù. Accorgendomene, però, non mi sono per nulla rattristato. Al contrario, l’ho vissuto come un piccolo segno: una parte di me era rimasta insieme a loro».