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domenica 23 marzo 2025
 
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Ennio Morricone: «Dedico questo premio a mia moglie»

28/02/2016  Solo a 87 anni il grande compositore ha vinto la statuetta per la colonna sonora di “The Hateful Eight” di Tarantino. Prima di partire per Los Angeles, il compositore ci aveva rivelato: «La famiglia è la mia sicurezza». Premiati anche Leonardo Di Caprio e il film "Il caso Spotlight".

Il Golden Globe vinto per la magnifica colonna sonora di The Hateful Eight, il nuovo western di Quentin Tarantino, è stato per lui una gioia a sorpresa. Ma il maestro Ennio Morricone non si è recato a Los Angeles per ritirare il premio. Ha delegato il regista che ne ha tessuto le lodi sul palco. Storia diversa per la notte degli Oscar. Perché l’Academy, con ogni probabilità, gli assegnerà la mitica statuetta, che andrà a fare il paio con quella datagli nel 2007 come omaggio alla carriera. Sarà il suo primo Oscar per le musiche di un film, dopo sei nomination e centinaia di colonne sonore (dai tempi della trilogia del dollaro di Sergio Leone per arrivare ai film di Tornatore) che hanno incantato i cinefili in tutto il mondo.
«Un premio non te lo aspetti mai. Arriva e ti fa piacere», commenta pacato Morricone, 87 anni. «Se verrà pure l’Oscar, lo prenderò volentieri. Sono scaramantico però, non è detto. In ogni caso, ho deciso di andare in America. Sono ancora convalescente dopo la rottura di un femore. Sto facendo tanta fisioterapia. Ma è una serata alla quale non posso mancare».

Lei ha scritto 500 colonne sonore tra cinema e Tv. Ha fatto tournée mondiali, diretto prestigiose orchestre. Ne ha viste di tutti i colori. Però il clamore attorno al film di Tarantino è enorme. Com’è stato lavorare con lui?

«Sinceramente, è stato facile. Mi ha spiegato il film e mi ha dato carta bianca. Ho composto i brani, li ho registrati a Praga e glieli ho fatti ascoltare».

Senza vedere un fotogramma?

«Non c’era tempo. Lui era in lavorazione e io, sulle prime, avevo rifiutato. Per fare bene il lavoro occorre una certa programmazione, lui invece piomba all’ultimo minuto. Io lavoravo alle musiche de La corrispondenza di Tornatore. Ma lui, a giugno in Italia per i David di Donatello, insisteva: solo un brano, il tema del film. Ho detto sì. Poi mi sono fatto prendere dalla storia e ne ho composti quattro, diversissimi».

The Hateful Eight segna il suo ritorno al western dopo 40 anni. Inevitabile un confronto con le musiche da lei composte per Sergio Leone, Duccio Tessari, Damiano Damiani. La cosa le crea ansia?

«Dovrebbe? Ho accettato perché Tarantino ha uno stile tutto suo. Improponibile qualsiasi paragone con quello dei registi italiani artefici degli spaghetti western. Ecco perché ho composto per lui qualcosa di completamente diverso. Una colonna sonora che riecheggia la musica sinfonica, giusta per il respiro del cinema di Tarantino. Un risultato sorprendente».
E sorpresi sono gli spettatori per un film che è sì un western, ma che non somiglia a nessun altro. Innanzitutto, l’epoca: pochi anni dopo la Guerra civile, tempo ancora di regolamento di conti. Quindi l’ambientazione: il Wyoming innevato. Gelo e candore ovunque. Lo sfondo perfetto per sangue e sparatorie. Poi gli otto protagonisti carichi di odio, come suggerisce il titolo. Il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell). La donna prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason-Leigh, nomination all’Oscar). Il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), nero, ex soldato dell’Unione. L’ambiguo Chris Mannix (Walton Goggins), rinnegato del Sud che sostiene di essere il nuovo sceriffo di Red Rock. Oswaldo Mobray (Tim Roth), boia in carica della città. Il mansueto mandriano Joe Cage (Michael Madsen). Il vecchio generale confederato Sanford Smithers (il grande Bruce Dern). Per ultimo l’ambiguo Bob (Demian Bichir), che gestisce temporaneamente l’emporio di Minnie. Il casale di legno è una stazione di posta, ultimo avamposto della civiltà in mezzo a montagne innevate. La bufera obbliga gli otto viaggiatori a rifugiarsi sotto lo stesso tetto. Tuttavia, uno di loro non riuscirà mai a raggiungere Red Rock…
Ce n’è abbastanza per far rizzare il pelo ai cinefili pazzi di Tarantino dai tempi di Le iene, Kill Bill o Bastardi senza gloria. Ma per spiegare quanto il regista (già due volte Oscar per le sceneggiature di Pulp Fiction e Django Unchained) punti sull’effetto spettacolare, basti dire che il film è stato girato su pellicola a 70 mm Ultra Panavision, megaformato che sembrava il futuro del cinema negli anni Settanta ma che nessuno usava più da decenni. Tanto che per l’anteprima la 01 (distributrice in Italia) ha dovuto affittare l’immenso Teatro 5 di Cinecittà e allestire una proiezione ad hoc. Mentre la Weinstein Company (dei fratelli produttori Bob e Harvey Weinstein) si è dannata l’anima per proiettare il film negli Stati Uniti nell’insolito megaformato, ottenendo però in cambio il record d’incassi di sempre per quella categoria.

Morricone, lei come definirebbe The Hateful Eight?

«Certamente non un western. Non bastano le pistole e un cappellaccio per fare un genere. Qui c’è da tener conto dell’epoca. È un regolamento di conti post Guerra di secessione».

Qual è la differenza tra Sergio Leone e Quentin Tarantino?

«Tarantino è sfacciato, capace di darti mano libera. Sergio invece aveva bisogno di essere rassicurato dal giudizio degli altri».

Quella notte del 2007 in cui ha finalmente stretto in mano l’Oscar onorario, ha dedicato la statuetta con parole toccanti a sua moglie Maria. Quest’anno festeggerete i 60 anni di matrimonio. Che importanza ha avuto la famiglia nella sua carriera?

«Fondamentale. Mia moglie e i miei quattro figli ormai grandi (Marco, Alessandra, Andrea e Giovanni) mi hanno dato sicurezza. Maria ha fatto una vita sacrificata. Io trascorrevo molto tempo da solo, chiuso a comporre. Oppure in viaggio. Due terzi della nostra vita coniugale l’abbiamo vissuta separati. C’è da dire che i premi e il successo sono arrivati, finalmente, a gratificarla. Forse più lei di me. Ora tutto ha un senso e Maria mi aiuta a gestire. È più partecipe che mai».

Tra coloro che le hanno instillato la passione per le note, oltre a suo padre, c’è stato il maestro Goffredo Petrassi, che è stato suo insegnante di composizione a Santa Cecilia. Adesso, sarebbe contento di lei?

«Non delle mie musiche da film. Da giovane, mentre ancora studiavo con lui, già lavoravo alle colonne sonore. Ma lo facevo quasi di nascosto. A lui non piaceva, forse perché una volta avevano rifiutato una sua composizione per film. Per consolarmi, mi diceva: abbi pazienza, vedrai che un giorno ricupererai il tempo perduto con il cinema. Oggi, forse, sarebbe contento delle mie cento partiture di musica classica».

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