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martedì 28 marzo 2023
 
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Enrico Ruggeri: «I miei giovani colleghi? Leggono troppo poco»

15/03/2016  I loro testi raccontano l’amore, ma sempre dalla stessa angolazione, dice il cantautore. Che nel nuovo doppio cd racconta la sua storia

All’ultimo piano di un albergo, alla fine di un lungo e tortuoso corridoio immerso nel buio, c’è la stanza 007. Sarebbe davvero perfetta per James Bond. Solo che chi la occupa non assomiglia affatto a un agente segreto. In jeans e giubbotto in pelle, Enrico Ruggeri ci racconta del concerto che gli cambiò la vita: «Gli Emerson, Lake & Palmer al Vigorelli di Milano».
L’ottimo momento di forma mostrato a Sanremo, dove è arrivato quarto con Il primo amore non si scorda mai, è confermato dal suo nuovo doppio album Un viaggio incredibile, che accosta canzoni inedite a riletture di suoi successi pubblicati tra il 1986 e il 1991, più quattro omaggi a David Bowie.

Enrico, qual è la cosa più incredibile del tuo viaggio nella vita?

«Il fatto che io sia qui. Quando ho iniziato questo lavoro, mi dicevo che mi sarebbe piaciuto fare cinque album e un centinaio di concerti. Oggi di album ne ho fatti 32 e di concerti più di 3 mila».

E il tuo primo amore lo ricordi?


«Una bambina che abitava nel mio palazzo, Michela. Avevo cinque anni e grazie a lei ho imparato a scrivere perché volevo a tutti i costi inviarle una lettera. Ma in realtà con la canzone ho voluto celebrare tutti i primi amori, gli eventi importanti nella vita di ciascuno di noi, come la prima volta che ho collegato la mia chitarra all’amplicatore».

Tra le nuove canzoni c’è La badante è ispirata a un personaggio reale?

«Sì. Una zia, morta l’anno scorso, aveva una badante sudamericana, che aveva dei figli dall’altra parte del mondo. Ho riflettuto su queste persone che, potendo dare ai figli solo i soldi che guadagnano ma non il loro amore, lo riversano tutto sui nostri bambini o sui nostri anziani, che noi invece spesso non seguiamo più perché impegnati a correre chissà dove».

Tra le canzoni che hai ripescato, invece, c’è Prima di te, in cui canti: “Sono stato anch’io cattivo, suonavo l’heavy metal quando tu eri chiuso nell’asilo”. Sei stato davvero cattivo?

«Sono cresciuto negli anni di piombo e della diffusione dell’eroina tra i giovani. C’era in noi questa rabbia contro la società. A scuola gli eroi erano o il più ricco della classe o il capo del movimento studentesco, figure che spesso coincidevano. Io per tutti ero “quello della Seconda H che suona” e questa collocazione mi andava bene: la mia ribellione la esprimevo con la musica».

A proposito di giovani. Hai usato parole molto dure nei confronti dei testi dei tuoi giovani colleghi del Festival di Sanremo…

«Sembrano scritti da persone che non leggono libri, che non vanno al cinema, che non hanno dimestichezza con la consecutio temporum, figli di una generazione sintetica, da 140 caratteri. Non escono mai dal microcosmo “l’amavo, mi ha lasciato e ora soffro tanto”. È meraviglioso raccontare l’amore, ma ci vuole un po’ di acume nel trovare angolazioni originali».

Giochi ancora nella Nazionale Cantanti?


«Certo, e sono in costante miglioramento da quando ho perso un po’ di chili».

Sempre con la mitica maglia numero 10?

«Quella è assolutamente intoccabile. L’ho data solo a Maradona, quando abbiamo giocato assieme. A Zola che me l’ha chiesta, invece, ho detto: “Guarda che tu al Chelsea avevi il 25”. Ma con Maradona non ho avuto il coraggio».

E i tuoi tre „gli sono tutti interisti come te?

«Per motivi di asse ereditario, perché in caso contrario verrebbero immediatamente derubricati dal testamento. Però devo dire che mentre Pico, il maggiore, ha vissuto l’epopea dell’Inter che non vinceva mai e che poi di colpo si è ritrovata con il triplete di Mourinho, gli altri due vivono il tifo con più distacco. Del resto, credo che oggi sia difficile che un bambino si innamori del calcio com’è capitato a noi».

Stai per pubblicare un nuovo giallo, dopo il successo di La brutta estate. Di cosa parla?

«È una specie di sequel del precedente, dove c’era un commissario che aveva un ruolo secondario. Avevo voglia di scoprirlo di più. Non sono molto attratto dall’aspetto enigmistico del giallo. Mi piace piuttosto mettere delle persone normali a contatto con l’eccezionalità».

Nel 2013 hai pubblicato l’album Frankenstein. Sulla tua pagina Facebook c’è una citazione tratta dalla canzone omonima: “Dio dell’immagine dell’apparenza salva l’effi„mero più dell’essenza”. Cosa vuol dire?

«La vanità del dottor Frankenstein è quella di voler superare le leggi della natura: un argomento attualissimo. Siamo circondati da gente che fa di tutto per non accettare il passare del tempo sul proprio corpo che, invece, secondo me è soltanto uno strumento per portare il cervello da una parte all’altra del mondo. L’essenza sta dentro di noi».

 
 
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