Lo leggevi con la sua voce, perché ne aveva una, la stessa sulla carta e in Tv: frasi brevi, interrotte da punti fermi, parole che tutti potevano capire. Dietro, l’idea che il giornalismo fosse sempre «un servizio pubblico: come i trasporti pubblici e l’acquedotto». Diceva in una delle sue frasi celebri: «Non manderò nelle vostre case acqua inquinata», sottintendendo rispetto per il lettore, i fatti e le persone da lasciar parlare, ma anche la convinzione che l’obiettività non fosse sinonimo di amorale equidistanza e che nel dovere di un giornalista ci fosse anche la necessità di avere un punto di vista, un saper distinguere un comportamento etico da uno che non lo era. Un fatto di onestà intellettuale, anteposta al quieto vivere. Con questa voce, aveva intervistato le persone che hanno scritto la storia nel bene e nel male e raccontati i piccoli che vivono la storia sulla pelle, senza sconti ai primi, con garbo verso i secondi, con rispetto di tutti. Aveva incontrato le persone più impensate nei luoghi più disparati del mondo, da Albert Sabin, che aveva sconfitto la polio con il vaccino ad Alì Agca, che aveva attentato alla vita del suo coetaneo Giovanni Paolo II, che sognava di intervistare. Non vi riuscì, ma andò in Polonia a incontrare le persone che lo avevano conosciuto traendone un ritratto pieno di umanità. Tanto per dire gli estremi.
Una collezione formidabile di incontri che aveva popolato innumerevoli libri. A uno, ormai introvabile, sono affezionata: si intitola E tu lo sai? L’aveva pensato per aiutare i genitori a rispondere ai perché spesso da un miliardo di lire (era il 1978) dei bambini. Per andare incontro agli adulti messi in crisi dalle domande dei piccoli le aveva girate alle persone importanti che ne capivano. Senza nascondere la speranza che i bambini, una volta cresciuti abbastanza, sarebbero andati a sfogliare quelle pagine in prima persona. Andò davvero così, in un tempo in cui l’editoria non aveva ancora inventato la fascia “protetta” delle letture per 14-18enni, dismessi i libri per ragazzi si andava a ficcare il naso senza meta nella biblioteca dei grandi. E tu lo sai? era lì e fu il primo.
Biagi aveva un’idea del mestiere asciutta come la sua voce: «Scrisse quel che poteva mai quello che non voleva», era l’epigrafe che aveva chiesto per tempo per la tomba, un atteggiamento che in qualche momento gli costò ruoli importanti. Dopo lo scandalo P2, lasciò per un po’ il Corriere, per fare l’editorialista a Repubblica: spiegò che non si sentiva più a suo agio quando venne a sapere che nelle liste della loggia segreta di Licio Gelli c’era anche il nome del direttore di via Solferino Di Bella. Ricordando la direzione del Tg1 presa nel 1961 e durata meno di un anno ebbe a dire: «Ero l'uomo sbagliato al posto sbagliato: non sapevo tenere gli equilibri politici, anzi proprio non mi interessavano e non amavo stare al telefono con onorevoli e sottosegretari [...] Volevo fare un telegiornale in cui ci fosse tutto, che fosse più vicino alla gente, che fosse al servizio del pubblico non al servizio dei politici». Ma continuò a considerare la Rai una seconda famiglia, fino alla frattura del cosiddetto “editto bulgaro”, con l’accusa di un «uso criminoso della Tv», rivolta dell’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel 2002 durante un viaggio a Sofia a Biagi e alla sua trasmissione il Fatto. La sera stessa Biagi andò in onda e rispose appellandosi alla libertà di stampa. Dopo qualche settimana il Fatto chiuse i battenti ed Enzo Biagi salutò così: «Cari telespettatori, questa potrebbe essere l’ultima puntata del Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità che restare al prezzo di certi patteggiamenti».
Avrebbe continuato scrivendo editoriali sul Corriere, per poi tornare in Rai solo 5 anni dopo con Rotocalco televisivo, nome che era stato della sua prima trasmissione nella Rai di Bernabei. Riprese da dove era rimasto senza nascondere commozione e amarezza. Anni prima al Resto del Carlino si era giocato la direzione per difendere i suoi collaboratori sgraditi all’editore, tra loro Nazareno Fabbretti, francescano, uno dei “preti scomodi” suoi amici come don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia che pranzava spesso a casa Biagi. Enzo Biagi si definiva un «cattolico saltuario». Più volte ebbe modo di scrivere che la sua preghiera preferita era il Padre nostro: ci vedeva una mano tesa all’essere umano e alla sua fragilità. In quel «Non ci indurre in tentazione», leggeva una richiesta di soccorso: Signore, non distrarti, tienimi d’occhio, perché da solo non ce la faccio. A pensarci bene aveva intuito molto prima del tempo il senso della traduzione attuale del latino “Ne inducas…”, non abbandonarci alla tentazione. Di fede scrisse dopo una notte nella luce azzurrina della terapia intensiva, a seguito di uno dei tanti interventi al suo cuore ballerino e, ancora, dopo i funerali di Giovanni Paolo II, il 10 aprile del 2005 in prima sul Corriere: «Mi addormento chiedendo perdono a Dio, in attesa del nuovo giorno e delle altre possibili trasgressioni (…). Come sarà il cielo del Signore? Per me quello del presepe dei bambini poveri, fatto con la carta azzurra della pasta, o quello delle crocifissioni, con tante nuvole che incombono sulla tragedia. La preghiera che più mi consola il Padre nostro: un atto di sottomissione e un'invocazione di misericordia. E anche una richiesta di complicità: “Non ci indurre in tentazione”. Lui sa come siamo fragili, perché ci ha fatti: ha alitato sul nostro volto, ed è stata la vita, ma gli è scappato anche qualche colpo di tosse. E poi il senso del precario e del bisogno: se veste i gigli dei campi e sfama gli uccelli dell'aria, ci dia oggi (e anche domani) il nostro pane: e resti con noi finché si fa sera».
E ancora, in uno dei suoi libri, Quello che non si doveva dire, Rizzoli, 2006: «È la preghiera più umana perché parla del pane di ogni giorno, della speranza di un regno più giusto, della pietà dei peccati nostri e del prossimo. C’è in più una invocazione, una chiamata di corresponsabilità per gli inevitabili errori umani: Signore sai come siamo deboli, hai conosciuto anche tu le lusinghe del male, non ci indurre in tentazione, aiutaci a salvarci. L’uomo ha bisogno di sperare in un mondo senza sofferenze, dove il buono è premiato e dove si può vivere meglio. Questo Padre che sta nei cieli è il padre di tutti e se tutti noi imparassimo ad alzare gli occhi dalle nostre cose, dal nostro egoismo ci accorgeremmo che in ogni angolo c’è la storia di un bambino che piange perché la sua matita azzurra è finita e non può colorare il cielo come vorrebbe». Il Padreterno se lo figurava, umanissimamente, come: «Il gran Vecchio dipinto da Piero della Francesca, con la barba candida, lo sguardo rassegnato perché ne ha viste tante e conosce il finale di tutte le storie, e tende le mani verso una lontana pianura, sfumata dalle nubi che, per misericordia, nascondono le folli imprese dei suoi figli. La sua potenza e la sua gloria risplendono nei secoli: ci liberi dunque dal male».
Alla fine del viaggio disse: «Rifarei tutto». Ripeteva: «Se dovessi sintetizzare l’etica del giornalista direi: sii perbene. Era il consiglio di mia madre. Potersi guardare allo specchio e dire: ho fatto il mio dovere». Se n’è andato il 6 novembre 2007, il 9 agosto del 2020 avrebbe compiuto 100 anni e chissà che cosa avrebbe detto col suo filo di voce sommessa e ferma della Tv dei talk show in cui prevale chi urla di più, mentre sui social il giorno dopo rimbalzano solo gli insulti e le provocazioni.