Non l’avevo mai vista, ma ho capito subito che era lei, nonostante la piazza a quell’ora del mattino fosse piena di gente. Camminava a passi svelti e si guardava continuamente intorno. Come se qualcuno la seguisse. Il mio rapporto con Marianna F. da cui è nato il libro Testimone di ingiustizia (Edizioni San Paolo), è iniziato così.
Marianna mi ha subito detto che aveva scelto quel posto perché lei si sente molto più al sicuro in luoghi affollati e per questo motivo ci siamo diretti in un bar poco distante, che lei conosceva bene, per parlare con calma: il via vai di clienti era continuo, ma allo stesso tempo c’era una saletta che garantiva la necessaria tranquillità. Marianna ha iniziato a parlare e io a registrare. All’inizio ogni tanto sembrava perdere il filo del discorso. I suoi occhi si fissavano di colpo verso l’entrata del bar, come se dà lì potesse arrivare qualche minaccia. Ma poi pian piano si è sciolta ed è diventata un fiume in piena: i suoi ricordi erano sempre nitidi e il suo tono di voce era appassionato ma fermo, anche quando le toccava di rievocare gli eventi più dolorosi della sua vita.
Fin dall’inizio abbiamo scartato l’idea di realizzare il libro sotto forma di intervista, perché volevamo che avesse la forza emotiva di un romanzo, anche se di inventato non c’è nulla, a parte riferimenti a nomi e località quando ciò si è reso necessario per tutelare la sua sicurezza. Prima di pubblicarlo lo abbiamo fatto leggere al professor Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti italiani di criminalità organizzata, per anni membro della Commissione parlamentare antimafia, e lui ci ha fatto l'onore di scrivere la prefazione. Eccola:
LA PREFAZIONE DI ENZO CICONTE
Quando si parla di mafia il pensiero corre subito alla violenza assassina che spegne la vita di altri mafiosi o di vittime innocenti. Poi, negli ultimi decenni, soprattutto dopo il maxiprocesso di Palermo e le rivelazioni di Tommaso Buscetta, l’attenzione s’è spostata sui collaboratori di giustizia, i pentiti come di solito, con un termine improprio, vengono chiamati i mafiosi che hanno deciso di recidere i legami con la propria organizzazione.
Sangue e vittime sono in ogni caso il pensiero dominante che è associato al nome di mafia. In fondo, nella lunga storia delle mafie italiane, sangue e vittime sono sempre state presenti.
Pochi, però, si sono interessati di un altro tipo di vittime, quelle che hanno trovato la forza e il coraggio civile di denunziare e di indicare i colpevoli di omicidi o di altre nefandezze compiute dai mafiosi.
Il libro di Eugenio Arcidiacono ci racconta la storia di una donna, Marianna, e di una famiglia che in un paesino del crotonese hanno trovato la forza di ribellarsi. C’è solo il nome della donna e manca quello del paesino. E sono dettagli importanti, per capire il contenuto e l’essenza del libro. Se a distanza di tantissimi anni, quei nomi sono ancora coperti vuol dire che permane ancora un problema irrisolto. E che problema!
Marianna fa un racconto asciutto, senza orpelli, crudo, a tratti drammatico, della sua odissea – è proprio il caso di dirlo – che dal paese dov’era nata l’ha catapultata in posti sconosciuti, in località dove lei e i suoi familiari sono stati dei fantasmi e hanno vissuto senza un’identità non potendo utilizzare i loro veri nomi per evitare la vendetta della ‘ndrangheta.
Il racconto di Marianna parte dall’infanzia quando nel paese non c’era ancora la ‘ndrangheta che s’è formata in tempi recenti e con una violenza bestiale che ricalca e riproduce quella della faida che ha insanguinato altri comuni calabresi e non solo calabresi perché la faida ha radici antiche e solide ben piantate nei secoli scorsi. Con parole semplici ed efficaci Arcidiacono ci fa vedere alcune caratteristiche della ‘ndrangheta conosciuta da Marianna.
Perché parlando di Marianna parlo di una vittima? Perché le vittime non solo quelle uccise – e nella sua famiglia due fratelli sono stati assassinati e un terzo non ha retto psicologicamente alla tragedia – ma sono anche quelle che, sopravvissute, dopo aver reso la propria testimonianza sono state costrette a vivere una vita schiacciata dalla paura di essere riconosciute e a loro volta uccise, e annichilite dall’umiliazione di uno Stato schizofrenico che agisce in modo confuso e contraddittorio e non ha la capacità di difendere e di proteggere chi ha avuto il coraggio di fidarsi dello Stato.
Forse ci vorrà ancora del tempo prima di comprendere che i collaboratori di giustizia hanno una loro importanza, ma che i testimoni di giustizia hanno un’importanza ancora maggiore perché i primi hanno una funzione statica e si limitano a raccontare quello che è a loro conoscenza, e la loro funzione si esaurisce con la testimonianza nei processi mentre i testimoni hanno una funzione dinamica e, soprattutto se rimangono nei paesi d’origine come si sta cercando di fare negli ultimi anni, hanno una funzione permanente di ricordo e di testimonianza che una via alternativa a quella della sudditanza alla mafia è possibile.