“Franco Marini era un uomo forte e duro, pugnace. Quando sosteneva un’idea, Franco chiamava alla lotta per quella idea, non si accontentava certo di sottoscrivere un comunicato. Ma dietro la forza della scorza e della durezza c’era la tenerezza di un uomo molto sensibile ai valori umani e personali”.
Pier Luigi Castagnetti, 75 anni, parlamentare per cinque legislature, l’ultimo segretario del Partito Popolare Italiano, ricorda così l’amico Franco Marini, morto a 87 anni per le conseguenze del COVID. Segretario generale della CISL dal 1985 al 1991, ministro del Lavoro, deputato, senatore, presidente del Senato, europarlamentare, segretario del Partito Popolare Italiano, Marini ha dedicato la sua vita al mondo del lavoro, alla politica e alle istituzioni. “È stato esempio di un impegno politico onesto e autentico”, lo ricorda il presidente Mattarella.
Castagnetti, quando vi eravate sentiti l’ultima volta?
“Mi aveva chiamato per gli auguri di buon anno all’inizio di gennaio, pochi giorni prima del ricovero. Però non mi fece accenno a sintomi e malanni, anche se ovviamente, come è normale fra vecchi, abbiamo parlato del coronavirus”.
Avete parlato anche di politica?
“Sì certo, perché la passione non lo aveva mai abbandonato. Però anche lui, come me, apparteneva ormai a un altro mondo e sentiva la sua estraneità alle vicende attuali. Lui le osservava, soffriva e si rifiutava di capire più di tanto, prendeva atto che si era esaurita una fase e che la nuova fase destava apprensione”.
Marini è riuscito ad essere un leader nel sindacato e anche in politica, cosa che non è capitata a tutti. Quale era la sua forza?
“Non c’è da sorprendersi, perché Franco era un combattente e un grande organizzatore di truppe e di battaglie. Qualità che servono sia nel sindacato che in politica”.
Lo chiamavano “il lupo marsicano”, che rapporto aveva con l’Abruzzo dove era nato?
“Era un rapporto carnale. Marini aveva mantenuto con la sua regione un radicamento veramente straordinario e seguiva le vicende politiche anche dei comuni più piccoli. Si è sempre sentito il pater familias della Democrazia Cristiana abruzzese, di cui, dopo Remo Gaspari, divenne punto di riferimento”.
Era fiero della sua appartenenza agli Alpini?
“Moltissimo. La montagna era il suo mondo e quando mi capitò di accompagnarlo per qualche giro in Abruzzo o si finiva in una sezione di partito o in una degli Alpini. Il suo berretto con la penna ormai era tutto consumato, ma lui era felice di indossarlo ogni anno al raduno nazionale, soprattutto quando fu invitato come presidente del Senato”.
Lei e Marini siete stati anche rivali per la guida del PPI, il Partito Popolare Italiano. Come andò?
“Ci sfidammo nel congresso del gennaio del 1997 a Roma e fra di noi ci fu una competizione leale e affettuosa. Poi, nel congresso di Rimini del 1999, Franco sostenne la mia candidatura e vinsi nettamente contro Franceschini e Zecchino. Ma ormai quella del PPI non era una esperienza paragonabile numericamente e politicamente a quella della Democrazia Cristiana”.
Nelle elezioni del 2013 per il Quirinale, Marini fu candidato da Bersani e prese 521 voti, molto al di sotto dei 672 necessari. Renzi all’epoca disse che la candidatura di Marini era “un dispetto al Paese”. Marini come la prese?
“Renzi prese una posizione di petto, ma poi altri, in modo subdolo, lavorarono dietro le quinte per la mancata elezione di Franco. La sconfitta gli bruciava perché Marini aveva aveva ricevuto assicurazioni che non si rivelarono corrispondenti alla realtà e lui teneva la contabilità dei tradimenti. Fu una pagina abbastanza opaca di cui si parla poco rispetto al passaggio successivo, cioè la bocciatura della candidatura di Romano Prodi”.
Marini che presidente sarebbe stato?
“Un presidente alla Pertini, fuori dal palazzo, tra la gente. Ma poi gli sarebbe toccato vivere le vicende politiche del 2018 e avrebbe dovuto fare i conti con un paesaggio politico totalmente diverso da quello che aveva conosciuto”.