La piazza centrale e il bazar di Erbil.
Da Erbil – Se uno vuol vedere come funziona, o forse come non funziona, questo mondo d’oggi può venire qui, a Erbil, il capoluogo del Kurdistan. Dieci anni fa, subito dopo la caduta di Saddam Hussein, era una piccola città di curdi orgogliosi in condizioni di vita quasi misere. Oggi è una grande città di centri commerciali (Carrefour, Auchan, sono tutti qui), cinema multisala (spopola American sniper, il cecchino di Clint Eastwood che faceva fuori iracheni a decine, e ci vuole una certa solidità psicologica per andarlo a vedere qui, di questi tempi), bar e graziosi caffè dove le signore gustano fette di torta e bibite.
Erbil, però, è anche la capitale mondiale dei profughi: 1 milione e mezzo di abitanti e 750 mila persone che, nel giro di poche settimane l'estate scorsa, si sono rifugiate qui dalle zone dell'Iraq e della Siria occupate dai jihadisti. Sì, perchè a soli trenta-quaranta chilometri da qui c’è l’Isis, che considera tutta la modernità di questa città un peccato mortale, un tradimento dell’islam, un fenomeno da sradicare a cannonate e coltellate nella gola.
Musulmani sunniti di là e musulmani sunniti di qua, anche se l’afflusso dei profughi cristiani in Kurdistan ha lievemente modificato le proporzioni. Donne velate tra i tagliagole (tutte, implacabilmente) e donne velate tra i curdi (diciamo un 40%, visibili soprattutto nelle città, dove i vincoli familiari fatalmente si allentano e quindi “riconoscersi” è più importante). Persino, in qualche caso, curdi di qua e di là: il comandante delle milizie Isis che davano l’assalto a Kobane era un curdo. Ucciso in battaglia, è stato sostituito nell’incarico da uno dei suoi fratelli.
E’ ancora tutto da capire, insomma, come si possa crescere in modo sostanzialmente simile e ritrovarsi su posizioni così lontane, inconciliabili, nemiche. Un fenomeno forse non molto diverso da quello dei vari Kouachi e Coulibaly, nati con noi, cresciuti tra noi, educati come noi e un maledetto giorno pronti ad ammazzarci.