(Lo storico Giorgio Del Zanna. In copertina: il presidente turco Erdogan con l'ex primo ministro Davutoglu)
L’involuzione autoritaria della Turchia prosegue a grandi passi. Il 5 maggio scorso, falliti i tentativi di appianare le divergenze con il presidente "sultano" Recep Erdoğan, si è dimesso il primo ministro, l’ex delfino Ahmet Davutoğlu. «Non è una mia scelta – ha spiegato – ma una necessità». «Lo sai come sei arrivato a coprire quei ruoli», pare gli avesse appena ricordato il “capo”. Erdogan vuole accanto a sé uomini più che fidati. Tra i candidati alla successione del premier, una delle ipotesi più accreditate è il genero del presidente. Intanto, mentre la guerra con i curdi infiamma il sud-est della Turchia, continua a cadere sotto la scure governativa la stampa non allineata; Can Dundar, il direttore del giornale Cumhuriyet (Repubblica) è stato condannato a cinque anni e dieci mesi di reclusione per violazione di segreti di Stato dopo lo scoop del passaggio di armi in Siria. Dundar è scampato per miracolo a un attentato di fronte al Tribunale di Istambul, dove si stava celebrando il processo a suo carico e nei confronti del caporedatttore del suo giornale. E intanto ha annunciato la chiusura anche Zaman, il principale quotidiano d’opposizione. Dopo il commissariamento del Governo, le vendite sono crollate. Ne parliamo con Giorgio Del Zanna, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università Cattolica di Milano, studioso dell’Impero ottomano ed esperto di Turchia.
Da dove nascono le dimissioni di Davutoğlu?
"Dalla divergenza nella compagine al governo: nell’Akp si è rafforzata un’opposizione all’involuzione autoritaria di Erdoğan. Il crollo del turismo e il rallentamento dell’economia hanno dato coraggio al malcontento all’interno del partito, che aveva trovato nell’ex premier un riferimento. Due i punti di rottura: la gestione del problema curdo e la riforma che trasformerebbe il Paese da repubblica parlamentare a semi-presidenziale. Quanto alla prima, Erdoğan ha scelto la linea dura dopo il cessate il fuoco del marzo 2013, ma il Paese ora è sconvolto da attentati e da una situazione di guerra nel sud-est. Lo scontro più forte riguarda però il cambio della Costituzione: sebbene in Parlamento il Governo non abbia la maggioranza dei due terzi, necessaria per approvarlo, e nella stessa Akp non tutti siano d’accordo, Erdoğan vuole forzare la mano per attribuirsi parte del potere esecutivo. Se il nuovo premier non ci riuscirà, non sono da escludersi le elezioni anticipate".
Quindi la linea più autoritaria di Erdoğan ha vinto su quella più morbida di Davutoğlu?
"Sì, e non è una bella notizia. Però è interessante che la crisi abbia mostrato un malessere, più forte che in passato, all’interno dell’Akp. Il problema è anche l’assenza di un’opposizione che riesca a parlare all’intera Turchia: i curdi rappresentano comunque una minoranza, il vecchio partito kemalista ha un elettorato molto localizzato a Smirne e nella parte occidentale del Paese. Negli ultimi mesi, l’alternativa più pericolosa è maturata proprio all’interno dell’Akp. Per ora ha vinto la cerchia ristretta di potere attorno al presidente, vedremo in futuro. La nomina del prossimo premier, scelto il 22 maggio durante un congresso straordinario dell’Akp, sarà un’indicazione importante: sarebbe una pessima notizia se fosse designato l’attuale ministro dell’Energia Berat Albayrak, che ha il solo “merito” di essere il cognato di Erdoğan".
Chi era Ahmet Davutoğlu?
"Un fedelissimo del presidente, che rischia di fare la stessa fine di un altro ex delfino di Erdoğan: Abdullah Gül, già presidente della Repubblica, ora scomparso dalla scena politica. Davutoğlu è un professore di Relazioni internazionali, noto per aver scritto sedici anni fa il libro “Profondità strategica”. Quando è diventato prima ministro degli Esteri e poi premier, ha messo in pratica una politica pragmatica. Da un lato secondo una direttrice neo-ottomana verso Balcani, Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale, in considerazione del mutato spazio geopolitico dopo il 1991; dall’altro, l’accademico ha promosso un nuovo approccio: uscire da una logica solo militare e di sicurezza della politica estera (nella tradizione turca in mano all’esercito) a favore della diplomazia e di una penetrazione soft power (economica, religiosa e culturale) che sfrutta l’idea del turanismo, ovvero le affinità culturali, religiose e linguistiche con le popolazioni di antica dominazione ottomana".
La scure contro la stampa di opposizione è legata allo scontro in corso?
"Rappresenta un altro campo in cui ha prevalso la linea autoritaria di Erdoğan. Come sappiamo, il 6 maggio scorso, Can Dundar, direttore di Cumhuriyet, è stato condannato a 5 anni e 10 mesi per violazione del segreto di Stato e, mentre entrava in tribunale a Istanbul, è scampato a un attentato a colpi d’arma da fuoco. Il suo quotidiano è l’espressione del Partito repubblicano del popolo (Chp), l’opposizione laica kemalista, e si è macchiato della “colpa” di aver pubblicato uno scoop da cui emerge chiaramente il coinvolgimento di ambienti turchi nel passaggio di armi all’Isis. Sempre di questi giorni è l’annuncio della chiusura di Zaman, il principale giornale di opposizione: Erdoğan lo aveva commissariato, provocandone il crollo delle vendite. Per il presidente si trattava dell’opposizione più pericolosa, quella di Hizmet, il movimento religioso (oltre che sociale e culturale) di Fethullah Gülen, in esilio volontario negli Stati Uniti. Nasce nella tradizione sufi e ha centinaia di migliaia di aderenti in Turchia, rappresentando un’alternativa islamica all’Akp".
E l’accordo tra Europa e Turchia sull’immigrazione?
"In quel caso si sono incontrati l’interesse europeo di fermare i profughi e quello turco di ottenere, oltre ai tre miliardi, l’avvio del processo di abolizione dei visti per l’area Schengen. Due i teorici dell’incontro: Angela Merkel, che spinge per legare la Turchia all’Europa in un’ottica di stabilizzazione e di contenimento della deriva autoritaria, e appunto Davutoğlu, che da pragmatico ha riconsiderato l’opzione europea in un momento in cui la Turchia è isolata a est, a causa della tensione con la Russia, della sconfitta dei ribelli in Siria e della crisi in Nagorno-Karabakh nel Caucaso. Proprio le trattative con l’Europa, condotte con troppa autonomia da Davutoğlu, avrebbero irritato Erdoğan".
Renzi ha dichiarato: "Ciò che avviene in queste ore in Turchia pone un ulteriore interrogativo sull'accordo". Lei cosa ne pensa?
"Siamo di fronte a un “dilemma turco”: abbiamo sempre più bisogno della collaborazione con la Turchia, che però si allontana a grandi passi dagli standard europei. Per quanto l’accordo sui profughi presenti delle criticità, la scelta della Merkel è strategica: agganciarsi all’Europa può aiutare la Turchia a frenare questa deriva autoritaria, tanto più in una fase così critica per il Medio Oriente. D’altro canto, le preoccupazioni di molti nell’Unione sono legittime: gli accordi non devono essere firmati a qualsiasi prezzo, non si possono chiudere gli occhi sul rispetto dei diritti umani".