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domenica 06 ottobre 2024
 
Mai arrendersi
 
Credere

Erica Bassi: le tre “p” che mi aiutano a combattere il cancro

06/04/2017  Persone, provvidenza e preghiera. Sono le tre “p” che l’hanno sostenuta, dopo la notizia della malattia che ha cambiato la sua vita. Erica ora si racconta in un libro

La prima reazione, spontanea e umanissima, è stata: «Non può essere: ricontrolli, per favore. Ho tre figli piccoli... Non è possibile!». Davanti alla diagnosi dei medici che il 13 giugno 2014 le annunciavano di avere due grandi tumori maligni al seno, con i linfonodi già intaccati, Erica Bassi ha negato la dura evidenza che le veniva sbattuta in faccia. Si era sottoposta a un’ecografia di controllo per un «piccolo dolore». Invece «improvvisamente la mia vita è cambiata», racconta nel volume La porta gialla (quella davanti alla quale ha appreso la notizia, Edizioni San Paolo), in cui ripercorre passo dopo passo questo cammino tortuoso e inaspettato, sì, ma accompagnato da una fede profondamente incarnata. Ancora più concreta e radicata proprio “grazie” a questa esperienza: «Non sono felice di aver trovato sulla mia strada la malattia, ma in un certo senso mi sento privilegiata per tutta la vita che ho scoperto e, di cui, forse, mai mi sarei accorta».

UNA SPLENDIDA FAMIGLIA

Sposata da undici anni con Davide, Erica ha 42 anni ed è originaria di Torino; la coppia vive a Colico, in provincia di Lecco, con i tre bambini: Marco, che oggi ha dieci anni; Chiara, quasi nove; e infine Pietro, l’ultimo arrivato, che ne ha compiuti sei. Dopo il primogenito c’è stata Teresa, persa al quarto mese di gravidanza. Nel frattempo i due coniugi non hanno mai spesso di impegnarsi in parrocchia nei corsi prematrimoniali.

«Siamo molto diversi: io, sognatrice e logopedista; lui, valtellinese e ingegnere», dice Erica, che ha lo scoutismo nel sangue e non ha perso il sorriso nonostante la sofferenza, i 18 cicli di chemioterapie, l’importante intervento chirurgico e le cure pesanti a cui si è sottoposta negli ultimi anni per vincere il cancro. Inizialmente si è smarrita fra le paure di dover lasciare troppo presto i suoi affetti più cari. Davide aveva perso la sorella per la stessa malattia pochi giorni prima che il primo figlio venisse alla luce e non era intenzionato a veder morire anche la moglie. Lei aveva iniziato a scrivere un diario, «un modo per consegnare i ricordi ai miei bambini. Ma non pensavo assolutamente a un libro: la proposta è venuta dal direttore della libreria San Paolo di Torino, che conoscevo da tempo e a cui avevo confidato la mia storia. Così, dopo aver chiesto consiglio a un altro sacerdote, ho iniziato titubante a mettere giù le prime righe l’8 dicembre 2015, solennità dell’Immacolata concezione». Per questo ha scelto di mettere nell’incipit i verbi del Vangelo dell’Annunciazione proclamato a Messa quel giorno: «Rallegrati... Non temere... Nulla è impossibile a Dio».

Tre “p” l’hanno sostenuta in questi anni faticosi: persone (amicizie nate proprio grazie alla malattia), provvidenza e preghiera. «Nel tempo delle cure, i figli sono stati per me una favolosa sorgente di normalità. E poi l’aiuto di mio marito e di mia mamma che, occupandosi delle faccende di casa e dei bambini, alleggeriva le preoccupazioni concrete».

LA FORZA DELL’IRONIA

  

A firmare la prefazione del volume è Costanza Miriano, giornalista e scrittrice, che ha conosciuto Erica durante un incontro a Milano (prestandole una reliquia di san Giovanni Paolo II, poi restituita) e che definisce il volume un’opera «di altissimo artigianato. Perché è un lavoro lungo, minuzioso e paziente, quello che Erica ha dovuto fare su se stessa, per non maledire la propria croce ma viverla per essere sempre più figlia di Dio. Un libro anche pieno di buonumore, contrariamente a quello che ci si aspetterebbe». Infatti è proprio la cifra dell’autoironia a colpire, insieme alla forza di comunicare ai bambini quello che stava succedendo e diffondere il più possibile la notizia, innescando una lunghissima sequenza di preghiere e affidamenti a Maria. Lei, che caratterialmente «ingigantisce un po’ tutto», si è trovata a gestire l’inadeguatezza nel sentirsi una madre indebolita nelle forze e, al tempo stesso, a far vedere ad altre pazienti come si indossa il turbante dopo la chemio. «Passavo dalle paturnie all’ironia per ridere della malattia e non appesantire il clima in famiglia», si schermisce.

«È stato come se dovessi verificare sul campo quello in cui dicevo di credere», continua. «Quando mi sono trovata nel dolore, quelle che prima mi sembravano solo parole sono diventate invece un terreno che reggeva. Per me è questo il senso della Passione e della Pasqua: trovarmi nel buio e restare lì dentro, guardare il Crocifisso che ci è passato, sentendo anche gli odori e la sporcizia che questo comporta. Nulla di poetico e divertente, quindi. Ma il Signore non mi lascia lì. Posso permettermi di piangere e al tempo stesso di rimanere nella speranza». Però ammette di aver dimenticato spesso l’obbedienza nelle piccole cose di ogni giorno: «La malattia diventa scuola: di pazienza (ci sarà un perché se ci chiamano “pazienti”, no?), di abbandono a chi ti sta accanto e a Dio. Ti costringe a fare pulizia nei tuoi spazi, convinzioni e priorità; ti rende irriducibilmente nuda, bisognosa di altre mani, capaci di coprirti con premura e pazienza. E non sempre è facile essere dei bravi alunni!». E, per chiarire lo stato d’animo di quel periodo, aggiunge: «Me la prendevo con tutti quelli a cui voglio più bene (leggete pure marito e figli!) per ciò che in me non va più: la stanchezza, la paura, la ciccia, le braccia che non funzionano come prima. Ma cosa c’entra tutto questo con l’offerta a Dio?». E nelle pagine, quando ripercorre i primi tempi dopo le cure, confessa: «Non mi sento proprio come una novella wonder woman. A volte entro in modalità “povera me, nessuno mi capisce”». Oggi rilegge così quei momenti: «Si rischia di tornare alle nostre piccinerie; ma d’altra parte nasce forse una coscienza diversa di quali sono le cose che vale la pena lasciar andare».

Certo, l’ombra di una recidiva non è scomparsa dall’orizzonte. Eppure Erica e Davide continuano a tenere corsi per i fidanzati in parrocchia, portandosi dietro i figli che fanno i compiti, compongono collage o leggono Topolino. Insomma, guardano al futuro con speranza. «Forse quel pizzico di paura che mi accompagna non svanirà mai», conclude Erica nel libro. «Ma andiamo avanti con fiducia, sapendo che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”».

Foto di Ugo Zamborlini

IL LIBRO: LA PORTA GIALLA

Lungo le pagine emerge un desiderio profondo di continuare a stare nella vita con un sorriso, nonostante la fatica e il dolore. La porta gialla – quell’uscio di fronte al quale Erica accoglie il referto medico – diventa una soglia che conduce a una vita mutata dal dolore, che apre però anche sulla speranza. (La porta gialla, Edizioni San Paolo, pp. 120).

 
 
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