La flebo che sgocciola lenta, il ventilatore appeso al soffitto, il letto semplice, le sedie raccolte come ad accogliere i visitatori e la finestra aperta sul giardino dell’Aloisianum di Gallarate. È la primissima immagine del film-documentario (già uscito nelle sale a marzo con Istituto Luce Cinecittà e proiettato alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia nel quinto anniversario della morte del Cardinale) che Ermanno Olmi dedica a Carlo Maria Martini: vedete, sono uno di voi ha la voce narrante del grande regista, si apre con le immagini del giovanissimo Carlo Maria, figlio dell’alta borghesia torinese, che già a dieci anni sceglie di dedicare tutta la sua vita a Dio entrando nella Compagnia di Gesù e si chiude con Martini provato dalla malattia, la voce ridotta a un sussurro, le mani impacciate che riprendono vigore nell’atto di benedire alcuni amici venuti a trovarlo per l’ultimo saluto prima della morte, il 31 agosto 2012. E il suo volto sofferente – con gli occhi azzurri e quel profilo da principe rinascimentale – si sovrappone nella mente dello spettatore a quella del visetto da bambino che la madre portava al bar a Torino dopo aver fatto la Comunione.
«Avevo timore di fare un film su Martini», confessa Olmi alla proiezione in anteprima. «Avevo fatto E venne un uomo su papa Giovanni e fu accolto con simpatia ma senza l’entusiasmo che ci si aspetta alla fine di un film che è costato tanta fatica». Era il 1965, subito dopo il Concilio, quando il regista in continua ricerca di fede raccontò il Papa buono.
Adesso ecco Martini, che non diventò mai Papa – anche se in molti l’avrebbero voluto – e che nell’Italia del terrorismo e di Tangentopoli, dei conflitti sociali e della violenza assurge al ruolo di defensor civitatis, lui che agli inizi degli Anni ’80 fu “sottratto” da papa Wojtyla agli amati studi biblici per guidare una delle diocesi più vaste e complesse d’Europa, sentinella di un Paese in rapido mutamento.
«C’è tutto di me in questo film, è come essere debitori di una chiamata», riflette Olmi, che racconta il rapporto d’amicizia con il cardinale che incontrò nel 1980, all’inizio del ministero episcopale a Milano: «Ora capisco la simpatia che suscitava. Ricordo come mi mise in imbarazzo per come ascoltava me che ero una riserva».
Tra immagini di repertorio, musica classica e la voce di Olmi, si tratteggia l’affresco di Martini definito da Marco Garzonio, coautore del documentario, un «Padre della Chiesa capace di assicurare alla cristianità la presenza continua del fuoco dello Spirito». Ma si tratteggia anche – attraverso espedienti stilistici davvero efficaci – l’affresco dell’Italia, i travagli della Chiesa, il dibattito sul profitto e i diritti dei lavoratori, l’ascolto in silenzio della Parola che Martini insegnò a migliaia di persone, soprattutto giovani, con il metodo della lectio divina in Duomo.
Un ruolo, quello del cardinale, che risalta quando a un certo punto c’è un’inversione cronologica, di modo che la rievocazione di Tangentopoli si trova a precedere quella degli anni di piombo. Ecco che la denuncia della corruzione si pone sullo stesso piano di quella della follia che insanguinò Milano e il Paese per oltre un decennio. E il confronto, franco fino allo scontro, con il mondo dell’imprenditoria e della politica rimanda al dialogo con i brigatisti cercato da Martini e culminato nel celebre episodio delle armi fatte consegnare al Cardinale in arcivescovado.
Il filo narrante è il letto vuoto dell’Aloisianum. C’è la dolce Torino dell’infanzia, la Roma degli studi, la Milano dell’impegno pastorale. E Gerusalemme, la città dove il Cardinale sognò a lungo una sepoltura nella Valle di Giosafat. Ma le immagini virano in altra direzione, in una stanza spoglia e nel Duomo di Milano gremito per l’ultimo addio al “suo” cardinale.