Giuseppe Carini. Forto di Stefano Schirato.
Ritorna a parlare uno dei suoi ragazzi. Uno di quelli che lo
ha seguito fino alla fine. E che ha testimoniato contro i mandanti
mafiosi, pagando il prezzo di una vita da fantasma.
Quando don Pino Puglisi, nel 1991 arrivò nel quartiere di Brancaccio, come nuovo parroco, Giuseppe Carini, era un giovanotto ventenne,
studente di Medicina, che al mattino frequentava la facoltà di Palermo e
al pomeriggio giocava al pallone coi coetanei del quartiere dov’era
nato e vissuto. Le amicizie provenivano dalle
"famigghie" affiliate a cosa nostra. Brancaccio era il feudo di Michele
Greco, il papa a capo della cupola di cosa nostra, un quartiere-ghetto
ad altissima densità mafiosa. E come tutti i ragazzi, anche Giuseppe,
era cresciuto col mito dell’uomo d’onore.
«Volevo diventare come il cugino di mia madre, un uomo considerato da tutti», spiega.
Poi l’incontro con questo piccolo prete dalle grandi orecchie e un
sorriso disarmante, che va incontro ai bambini di strada e parla di
legalità. Un incontro che gli cambia la vita, per sempre. Il 15
settembre del 1993, il giorno del suo 56° compleanno, don Puglisi viene
barbaramente assassinato sotto casa sua, da due killer mandati dai
fratelli Graviano, boss dinamitardi di Brancaccio. Cosa nostra non
poteva più tollerare l’operato di un testardo prete-coraggio che stava
strappando, uno a uno, i bambini alla manovalanza mafiosa sotto gli
occhi dei picciotti, dimostrando che un’alternativa al sistema e alla
cultura malavitosa era possibile.
Dopo vent’anni dalla sua uccisione, la Chiesa lo ha riconosciuto martire
e il 25 maggio a Palermo si celebrerà la sua beatificazione. Teste
chiave al processo contro i Graviano, che furono condannati
all’ergastolo, fu proprio lui, Giuseppe Carini, uno dei "ragazzi" di
“3P” come amavano sintetizzare il trinome "Padre Pino Puglisi", uno dei
primi giovani animatori della parrocchia, che non avrebbe abbandonato il
suo "parrino" neanche dopo morto. Dal 1995, infatti, Giuseppe
è "testimone di giustizia"; è stato inserito nel programma speciale di
protezione. Da allora è un fantasma, che già all’età di 25 anni, ha
dovuto rinunciare a identità, nome, terra d’origine, studi universitari e
famiglia che lo ha rinnegato. In 18 anni, come fosse un latitante, ha
cambiato dieci volte abitazione, in otto città diverse di cinque regioni
italiane. Di rado può calare la "maschera" e, tornando a parlare come
Giuseppe Carini, raccontare quell’uomo giusto che lo portato a
"conversione". E lo fa con noi, a poche ore dalla beatificazione del suo
"parrino".
- Come ha conosciuto don Puglisi?
«Me ne parlò un amico. "Vieni a conoscere il nuovo parroco di San
Gaetano. È davvero in gamba", mi disse. Al primo incontro mi propose di
dedicare un’ora alla settimana ai bambini di strada del quartiere. Mi
diede in mano un pallone di cuoio e andai da loro. Cominciò così».
- Cosa la colpiva di questo sacerdote?
«Mi spiazzava. Mi sfuggiva la sua logica. Ma mi affascinava, e il mio
impegno in parrocchia crebbe presto. Era bello vedere che questi bambini
cresciuti troppo in fretta si affezionavano a te e al prete che si
prendeva cura di loro. Padre Pino, uomo di vasta cultura, era
consapevole che bisognava mettersi in gioco totalmente con queste
persone. Quello che era suo era nostro. Per ogni iniziativa in
parrocchia metteva denari di tasca sua. Viveva la povertà in concreto:
saltava i pasti caldi e si accontentava di mangiare scatolette per
correre a trovare le persone che avevano bisogno».
- Che rapporto aveva con lei?
«Si parlava tantissimo. Lo spazio era sempre quello della sera tardi, in
sacrestia o in auto sotto casa mia. Sapeva parlarmi senza proferire
parola e il suo silenzio non era cupo, né pesante. Conosceva bene la mia
situazione e anche il fatto che frequentavo amici in odore di mafia,
tuttavia non mi fece mai pesare nulla; non mi ha mai rimproverato».
- Un episodio, un aneddoto?
«Un momento importante della mia vita fu quando mi accostai al
sacramento della Cresima. Fino a un’ora prima della celebrazione non
dissi nulla ai miei genitori perché avevo deciso di non avere alcun
padrino e la cosa avrebbe fatto scalpore, non solo a casa mia. Ero
l’unico infatti ad aver fatto quella scelta. Quando padre Puglisi lo
seppe, m’appoggiò e m’incoraggiò: "Non ti basta Lui come padrino?", mi
disse sereno, indicandomi il cielo. Conservo ancora tra le poche cose
che sono riuscito a portare via da casa la foto del rito. Quel momento
fu dirompente col mio passato e fondamentale per la mia conversione».
- E i suoi genitori?
«Non so se abbiano capito, né ho avuto poi l’opportunità di
chiederglielo. So che non hanno mai condiviso né la cultura, né la
mentalità mafiosa. Avevamo sì parenti mafiosi, ma con loro mio padre
teneva ben pochi rapporti. All’inizio non vedevano male che andassi in
parrocchia. Quando iniziarono a ricevere pressioni, mi chiesero di
andarmene via da lì».
- Quand’è che capiste che Cosa Nostra non avrebbe tollerato oltre l’operato di padre Pino?
«È stata una veloce escalation di messaggi e minacce. Dalle gomme
tagliate dell’auto del sacerdote, alle percosse. Io sono stato
perquisito e minacciato più volte».
- Ma quand’è che venne alzato il tiro?
«Capimmo del pericolo quando incendiarono le porte di casa a tre membri
del Comitato intercondominale di via Hazon, che operava a fianco di don
Pino. La parrocchia, poi, col suo centro d’accoglienza "Padre Nostro"
era diventato il punto di riferimento alternativo per tutto il quartiere
e questo, cosa nostra non se lo poteva permettere».
- E don Puglisi?
«La prima domenica dopo l’incendio, alla messa delle 11 pronunciò
un’omelia durissima: "chi usa violenza è paragonabile a una bestia",
affermò rosso in faccia, visibilmente scosso. E aggiunse che se c’era
qualcosa da dire dovevano rivolgersi a lui e non ad altri. Mentre
parlava, m’accorsi che seduti su una panca stavano alcune persone che
non avevo mai visto prima in parrocchia. Capii che la situazione era
grave. Poi si andò a pranzare in un luogo appartato in campagna e si
parlò a lungo: decidemmo di andare avanti».
- Anche contro le sue disposizioni?
«Sì, voleva che non lo accompagnassimo più alla sera tardi. Ma chi di noi poteva abbandonarlo?».
- A lei disse qualcosa in particolare?
«Sì, un giorno, quando ormai era chiaro che la mafia gli aveva
dichiarato guerra, mi prese in disparte e mi chiese calmo: "Se dovesse
succedermi qualcosa, ti prego di non lasciarmi solo e di trattarmi
bene". Si riferiva al suo corpo una volta ammazzato, visto che io avevo
l’accesso all’istituto di Medicina legale e alle autopsie giudiziarie».
- E poi venne il 15 settembre 1993.
«Seppi dell’assassinio la mattina dopo, da mio fratello. Rimasì lì
attonito ripetendo "troppo presto, troppo presto". Mi precipitai
all’istituto di Medicina legale, nonostante tutti me lo sconsigliassero.
Lì avevano assassinato nel 1982 il luminare della medicina legale Paolo
Giaccone, che aveva rifiutato di aggiustare una perizia che incastrava
un killer mafioso, poi condannato. Volevo assolutamente raggiungere la
sala autoptica». Qui si rompe la voce per la commozione.
- Che ricorda?
«Il corridoio antistante e la cella frigorifera. C’era la bara di legno
aperta con dentro il corpo nudo del sacerdote. Scoppiai a piangere non
so per quanto tempo. Fu uno dei momenti più difficili della mia
esistenza. Ma non volevo farmi vedere così, per non deprimere i suoi
ragazzi. Assistetti all’autopsia giudiziaria, come avevo promesso a
padre Pino. Ma ricordo poco o nulla perché è come avessi chiuso tutto
dentro il cuore. So solo che lo ripulii pietosamente dopo l’autopsia».
- All’inizio dell’estate del 1995 lei entrava nel programma di
protezione a seguito delle sue testimonianze contro mandanti ed
esecutori dell’omicidio. Aveva solo 25 anni. Che cos’è cambiato per lei?
«Tutto. Mi hanno fatto scomparire. Dopo due mese e mezzo ero già fuori
dalla mia regione ed è iniziata una vita oscura, fatta di disagi,
trasferimenti, cambio d’identità, impossibilità di esercitare i miei
diritti civili, come quello del voto, e di usufruire dei servizi
essenziali, come quello sanitario. Una non-vita, insomma».
- Tornando indietro sceglierebbe di nuovo di fare il testimone di giustizia?
«Sì. So bene quanto ciò mi sia costato e quanto mi costerà. Ma ho fatto
una scelta libera, di coerenza. E le ragioni che trovo per confermarla
ogni giorno sono il volto e le parole di padre Puglisi».
- Ma lei non può raccontare alle persone che frequenta quotidianamente
della sua esperienza trascorsa accanto a questo straordinario prete…
«Vero. Sono condannato ad essere l’uomo qualunque. Ma posso fare in modo
che nel mio lavoro, quanto insegnatomi da padre Pino trovi braccia e
gambe. E poi, ogni tanto posso parlare, tornando ad essere Giuseppe
Carini: per esempio, quando incontro un amico testimone di
giustizia».
- Il più grande insegnamento di padre Pino?
«Ricordo una sua frase: "Cristo è morto per noi quando noi eravamo suoi
nemici. E’ l’amore oltre ogni limite. È il motivo della nostra gioia.
Posso toccare la sua fede con queste parole. E ciò mi basta"».