"Esistere o sopravvivere?" di Francesca Nodari
L’avvento dei cellulari a partire dagli anni ’90 e, in seguito, degli smartphone costituisce un evento che ha cambiato radicalmente la nostra socialità, le nostre modalità di interazione con gli altri, la nostra stessa vita che è come se fosse stata colonizzata da ciò che, apparentemente, ci sembrava costituire un mezzo per migliorare la comunicazione, ma che, in realtà, si è rivelato come una sorta di idolo cui votarsi. Del resto basta guardarsi attorno per strada, sui mezzi pubblici, nei ristoranti per avere la conferma di un andamento comportamentale che attraversa la società: occhi fissi sullo smartphone, auricolari in mostra, trilli di ogni genere che avvisano di una nuova notifica, della ricezione di un messaggio, di una mail, persone che parlano con chatbot come se stessero per rivolgersi ad un altro essere umano. Vecchi e nuovi imperativi si impongono: «il medium è il messaggio»; «l’essere è informazione»; mentre lo sconfinamento del reale nel virtuale avanza. Ciò a cui si assiste è il progressivo venir meno del faccia a faccia, con la conseguente riduzione dell’Altro a voce per arrivare, addirittura, alla sua scomparsa. Come scrive, a ragione, David Le Breton ne La fin de la conversation?: «Il legame sociale è più un dato ambientale che un’esigenza morale. Per alcuni, addirittura, non è altro che il teatro indifferente della loro realizzazione personale. Il contatto con gli altri è facoltativo, non è più un dato d’evidenza». In un salto d’epoca segnato da una permanente incertezza, da un egocentrismo crescente, da sentimenti rancorosi e pieni di indifferenza non siamo più capaci di incontrare lo sguardo dell’altro. Neghiamo, coi fatti, quell’«apriori di correlazione» che fonda il nostro essere già sempre in relazione ad altro e, quindi, all’Altro. Ci accontentiamo di meri contatti, perdendo di vista, totalmente, il valore del dialogico – in fondo gli esseri umani sono gli unici esseri viventi dotati di linguaggio – e procediamo speditamente verso un’errata percezione della nostra corporeità – esibita, perlopiù seduta, e da portare con sé come fosse un oggetto passando da un’attività all’altra con una sua minima mobilizzazione, grazie al ricorso a innumerevoli processi tecnologici. Cosa rimane della presa di consapevolezza della nostra corporeità vissuta, del nostro permanente stato di indigenza che necessita dell’incontro con l’Altro e insieme determina il decidersi-ad-iniziare-qualcosa-con-se-stessi prendendo sul serio il tempo e l’altro? Ora, per un verso, dinnanzi a quella che, giustamente, è stata definita da Jonathan Sacks, una nuova povertà sociale: la solitudine; per l’altro, dinnanzi al molteplice registrarsi di fughe da sé o scivolamento nel “biancore”, che attraversa le varie età della vita, non possiamo affermare che ci troviamo dinnanzi a dei veri e propri fenomeni che sono sintomi della chiusura all’evento? Nell’introduzione ad Accorgersi di essere vivi (con G. Bromolini), Franco Arminio, avverte di quanto sia necessario, oggi più che mai, procedere ad «un radicale ripensamento dell’umano» e con i versi che seguono sembra, davvero, scuotere, le sicurezze del «cocciuto sé» contemporaneo:
Per la prima volta nella sua storia
questa nostra piccola terra tonda
è abitata da persone sole,
mai come adesso i gruppi umani
sono sigle, assemblee provvisorie,
casi singoli e disperati,
individui alla deriva nel regno
del ci sono solo io.
Ora se è vero, come è vero, che queste parole ci restituiscono una fenomenologia del presente si tratta, a nostro avviso, di mettere capo a un ripensamento dell’umano che passa dall’evento rappresentato dall’incontro asimmetrico tra me e l’Altro e dal rammentare che l’accadimento fondante della dignità umana, come ha colto Bernhard Casper, eviene in quanto accadimento della correlazione, il cui senso ultimo è la responsabilità.
Forse che l’antidoto al ‘cattivo’ anacronismo della conversazione – che, come ha intuito Le Breton, sta per essere soppiantata dalla mera comunicazione – non risieda nel benefico e salvifico anacronismo della diacronia, di un tempo «che scorre trasversalmente» che è enigma, mistero, frattempo e che fa segno – nota Emmanuel Levinas – a «una ragione che parla, esce dal suo splendido isolamento, tradisce la sua superba indifferenza, abdica alla sua nobiltà»? In fondo, che cosa contempla l’accadimento stesso del parlare se non il darsi di quel «lasso di tempo» – tempo non sincronizzabile – che è Dire, che è diacronia? Ecco, allora, che acquisisce tutta la sua forza imperativa ciò scrive Levinas ne i Carnets de captivité allorché ammonisce: «La morale – è la parola pura – la possibilità di vedere un volto dietro tutte le sue maschere».
Da qui, siamo convinti, si debba partire per mettere capo a un ripensamento dell’esserci di carne e di sangue che non può prescindere dalla propria umanità e dalla propria temporalità. La posta in gioco è molto alta: si tratta di decidere se esistere o sopravvivere.