«Vengo da Rio Brillante, nel centro del Brasile, e sono
cresciuta in una fattoria inserita in una terra di latifondi in cui vige ancora
la legge dello sfruttamento dei lavoratori, in cui i contadini sono in piena
lotta per difendere il loro diritto alla terra, in cui il genocidio culturale
degli indios non fa parte soltanto del passato ma appartiene al presente.
Insomma, ho vissuto all'interno di un ambiente molto ingiusto in cui però si
vive una povertà che io chiamo "contadina", perché è profondamente
diversa da quella delle favelas: da noi c'è sempre stato da mangiare grazie
alla ricchezza delle risorse agricole; nelle capanne di cartone dei grandi
centri urbani, invece, si muore ancora di fame». Claudileia Lemes Dias (foto), 33
anni, da sette vive in Italia dove si è affermata nei panni di scrittrice (ha
vinto il premio del III Concorso letterario nazionale Lingua madre, con la
Compagnia delle lettere ha pubblicato "Storie di extracomunitaria
follia" e con Fazi "Nessun requiem per mia madre"): il prossimo
7 giugno sarà tra gli ospiti del Festival culturale "Leggendo
Metropolitano" (Cagliari, 6-10 giugno, per maggiori informazioni
consultare il sito www.leggendometropolitano.it) per affrontare insieme ai suoi
"colleghi" Daniela Finocchi, Pap Khouma e Migena Proi, il tema del
tempo legato ai cambiamenti e alle radici. In esclusiva, ci ha concesso un
lungo intervento per parlare di integrazione, povertà e indifferenza attraverso
il racconto della sua esperienza di vita, un po' appassionatamente brasiliana e
un po' orgogliosamente italiana.
«Fin da piccola ho sentito forte il bisogno di impegnarmi per la difesa dei diritti umani: lì da dove vengo è impossibile non notare le disuguaglianze. Anche per questo, soprattutto per questo, credo di aver orientato i miei studi verso Giurisprudenza: siamo tutti uguali davanti alla legge. Ovviamente questa scelta ha comportato dei sacrifici, come allontanarmi dalla mia famiglia perché in quella zona non ci sono università»: Claudileia lo racconta senza fare del vittismo, senza dare l'impressione che la sua pretenda di essere una storia "eroica", ma è vero che, come in un favola dell'Ottocento, per andare a scuola utilizzava il cavallo. Le strade erano pressoché inesistenti, e, se c'erano, erano sterrate. Stiamo parlando della metà degli anni Ottanta. «La verità è che da allora, almeno dalle mie parti, le cose non sono poi molto cambiate. A Rio Brillante non c'è il mare, non c'è turismo, non ci sono collegamenti con la civiltà: è veramente un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato. Siamo ancora molto legati ai valori essenziali della vita», e non potrebbe essere altrimenti in un luogo in cui l'elettricità è garantita per poche ore al giorno da vecchi generatori per uso domestico. Per assecondare il suo desiderio di studiare, capire, conoscere, si è spostata a Curitiba (foto dell'università di Paranà), quella che viene considerata la capitale ecologica del Brasile, «un modello svizzero dove tutto funziona, dove tutto è perfetto, ma dove non tornerei: lì, lo svago è andare nei grandi centri commerciali e non si respira cultura in nessun modo. È un divertimento consumistico». Il salto per è inizialmente uno shock. La vita all'improvviso ha cominciato a viaggiare a una velocità totalmente differente da quella a cui era abituata. Gli studi, però, l'hanno ripagata abbondantemente: «Fin dal primo anno, parallelamente ai diritti umani, mi è esplosa una passione forte per la storia e il sistema di codificazione dell'impero romano, la culla del diritto: per questo, l'Italia era un po' il sogno mio e di tutti quelli che amavano questa materia. Tra l'altro le leggi in Brasile sono un po' un "copia e incolla" di quelle italiane: il codice civile, quello penale, le normative sul diritto del lavoro sono praticamente identiche».
Terminata l'università è arrivato il momento di un nuovo cambiamento, ancora più radicale, ma inevitabile per dare ascolto a quel "richiamo" forte dell'Italia: così, prima ha seguito un master in mediazione familiare a Roma e successivamente uno sui diritti umani all'università La Sapienza. Infine, il dottorato di ricerca in sistema giuridico romanistico a Tor Vergata. Esattamente quello che aveva sperato. E tutti i pezzi della sua formazione hanno preso forma, compresa quella curiosità per il diritto romano un po' anomala per una giovane ragazza brasiliana: «Mi è servito tutto quello che ho studiato. E quel sistema giuridico rimane di una modernità straordinaria. Ricordo, per esempio, che ho pensato che non fossero cambiate poi molto le cose da quando, nell'antica Roma, agli schiavi altamente specializzati veniva riservato un trattamento speciale da parte del loro proprietario che versava loro ogni mese una somma di denaro per ripagarli delle loro prestazioni senza che però questa potesse essere utilizzata fino al giorno della liberazione. In pratica il proprietario da una parte ne riconosceva le competenze, dall'altra mancava totalmente di umanità: un sistema paradossale che ha delle similitudini con quello che oggi accade con gli immigrati in Italia». Anche per cose più insignificanti: «Ho fatto volontariato per tre anni al centro d'ascolto dello sportello stranieri della Caritas di Roma e mi è capitato di ascoltare storie di donne che lavorano come badanti in case italiane pur avendo compiuto studi al conservatorio che in un mondo più giusto avrebbero concesso loro altre opportunità: bene, i datori di lavoro, pur sapendo perfettamente questa vocazione, hanno sempre vietato loro di suonare il pianoforte di casa, a costo di lasciarlo inutilizzato».
«Siamo in pieno boom economico, è vero, ma non bisogna
dimenticare che fino al 1985 eravamo una dittatura militare e, in virtù di
inspiegabili accordi presi con nazioni come gli Usa, non si poteva produrre
niente di industrializzato, né macchine, né frigoriferi, nemmeno attrezzature
per il teatro. Quando negli anni Novanta siamo stati investiti da una profonda
crisi economica quegli accordi sono stati rivisti: il governo Lula ha deciso di
pagare tutti i debiti pregressi con l'esterno per poi, lentamente, ricominciare
a investire nel sociale». E così è stato. «Da noi la social card presentata
come una novità assoluta in Italia anche dal governo Berlusconi esisteva già da
parecchio tempo e aveva più senso perché era fornita a una fetta di popolazione
che non era mai andata a un bancomat. E poi, in cambio, si chiedeva alle famiglie
che i figli andassero a scuola». Si è trattato di uno spartiacque decisivo
nella storia recente del Brasile: «Per la prima volta qualcuno stava facendo
qualcosa anche per i più poveri senza scadere in discorsi puramente retorici ma
con la volontà di innescare un circuito virtuoso». Tutte rose e fiori, dunque?
Neanche per sogno, le emergenze ci sono e sono a tutti i livelli. Una su tutte:
«Tre anni fa sono stata per la prima volta nella mia vita a Rio de Janeiro: è
piena di bambini di strada, tanto che alla Caritas, nonostante tutto l'impegno
possibile, ammettono di non riuscire a fare quanto sarebbe necessario». Stiamo
parlando di un Paese, il Brasile, che ha 24 milioni di bambini di strada,
praticamente «un'intera nazione di poveri, piccoli e miserabili».
«Potrà sembrare paradossale ma il
mio impegnato nel volontariato è stato più concreto in Italia che non in
Brasile dove vedevo le ingiustizie che mi stavano intorno con gli occhi di una
bambina prima e con quelli di una studentessa convinta che attraverso lo studio
avrebbe potuto cambiare le cose poi. All'università ho cominciato a imparare la
teoria e a capire i meccanismi. La povertà che ho visto alla Caritas era quella
degli stranieri: quella degli italiani l'ho frequentata nei mercati come Porta
Portese dove le bancarelle che vendono vestiti a 1 euro o 50 centesimi sono
prese letteralmente d'assalto. Era il 2005: faceva ancora freddo e prendendo
l'autobus per andare a Porta Portese ho visto intorno a me tante persone,
alcune vestite anche in maniera elegante, con cappotti ben fatti. Non mi
sembrava gente disperata o povera. Arrivando al mercato ho visto che quelle
stesse persone andare alla bancarelle low cost e aprirsi in sorrisi senza
denti». Sono stati mesi faticosi in attesa di una borsa di studio, Claudileia
ha lavorato come cameriera, baby sitter, domestica, e distribuito volantini:
lì ha conosciuto da vicino la povertà italiana e capito le differenze con
quella brasiliana. «Il povero povero in Brasile vive nelle baracche di cartone
che quando piove si disintegrano: in Italia è più assimilabile a quelli che voi
chiamate "barboni". Chi qui vive in una palazzina, anche la più
umile, gode comunque di servizi come acqua, luce, riscaldamento ecc che in
Brasile sono un miraggio per milioni di persone. Per me era strano considerare
povere quelle persone che si potevano garantire uno stile di vita che in
Brasile era quello della classe media. La povertà del terzo mondo è diversa da
quella del primo mondo».
«Io penso che gli stranieri che
oggi decidono di rimanere in Italia nonostante la crisi e la burocrazia che
rende difficoltoso, per esempio, ottenere i documenti, non sono quelli che
hanno un lavoro migliore ma quelli che hanno sviluppato un amore incondizionato
nei confronti di questo Paese. Se alla base delle scelte ci fossero ragioni
puramente economiche a questo punto andrebbero altrove». Un'Italia che però non è
accogliente come troppo a lungo ci siamo raccontati: «L'Italia a mio modo di
vedere è accogliente a seconda dell'ambiente che frequenti, ma non lo è in
assoluto: se respiri l'aria delle associazioni di volontariato o delle
università, il livello di accettazione è più alto». La vera migrazione che
attende l'Italia è quella dei giovani italiani: «Fino a due o tre anni fa
nessuno cercava corsi di portoghese, oggi all'ambasciata brasiliana (foto) i posti
sono esauriti poche ore dopo l'apertura delle iscrizioni. Gli stranieri che
sono qui da venti o trenta anni, invece, non se la sentono di partire per il
rispetto che nutrono nei confronti della storia, della cultura, della
tradizione di questo Paese che continua, nonostante tutto, a offrire
un'infinità di stimoli culturali. Io stessa non mi vedo altrove e mi
dispiacerebbe se un giorno le mie due figlie decidessero di lasciare l'Italia
perché qui ci sono risorse infinite introvabili in altri Paesi».
Ovunque, nel mondo, bisogna alzare il livello di attenzione
sul rispetto dei diritti umani: secondo Claudileia l'intervento delle
associazioni di volontariato è fondamentale ma è altrettanto importante che la
società civile sia costantemente informata e vigile. «Denunciare le
ingiustizie, anche quando ci si trova all'estero, è un dovere morale: non è
ammissibile giustificare certi comportamenti con il fatto che ci si trova in un
altro Paese solo perché si ritiene abbia semplicemente altre abitudini. Intendo dire che un
italiano che va in Brasile e vede ragazzine molto giovani sposate e con figli
non deve limitarsi a credere che sia normale come se si trattasse di una
tradizione culturale differente dalla sua. Io dico: non è normale per niente.
Anche noi stranieri in Italia abbiamo la tendenza a pensare che un'ingiustizia
che ci passa accanto sia "roba" da italiani. Non è così: bisogna
parlare, scrivere, denunciare». E, altra faccia dello stesso problema,
Claudileia non risparmia dalle critiche nemmeno tutti quegli scrittori migranti «che non danno il loro
contributo intellettuale agli avvenimenti dei Paesi in cui vivono, rimanendo
anche per comodità ancorati alle battaglie dei loro Paesi d'origine. Questo
atteggiamento non aiuta. Dobbiamo imparare a preoccuparci delle cose che
abbiamo davanti agli occhi».