(questo articolo fa parte del numero di maggio - giugno 2011 di Famiglia Oggi). E' possibile abbonarsi al bimestrale cliccando qui.
Osservando lo sviluppo del volontariato negli
ultimi anni, è evidente la crescita in complessità
dei ruoli – di difesa e promozione
dei diritti, ma anche di sperimentazione e gestione
di servizi, di diffusione dei valori della solidarietà e
di partecipazione alle politiche sociali – e quindi
delle funzioni di tipo organizzativo e gestionale richieste
per operare con qualità e continuità.
È una complessità che riguarda l’oggetto dell’impegno
del volontariato, non più solo i settori socioassistenziale
e sanitario, ma anche quelli che determinano
la qualità della vita dei cittadini e delle comunità
(ambiente, protezione civile, educazione
permanente, cultura, sport, solidarietà internazionale).
Tale complessità riguarda anche il modo di
funzionare di un’organizzazione di volontariato
(Odv) per la quale è oggi necessario fare programmazione
e progettazione mirata, monitorare i bisogni
della propria utenza o del territorio, acquisire,
curare e valorizzare la risorsa umana, fare buona comunicazione
– autoreferenziale o promozionale,
ma anche di sensibilizzazione dell’opinione pubblica
– così come non può non fare valutazione sociale
del proprio operato, raccogliere fondi sfruttando le
maggiori opportunità e il più ampio spettro di donatori
disponibili. Infine, essa deve rapportarsi con i
soggetti esterni, stringere alleanze, intrecciare rapporti
collaborativi con soggetti omologhi e stare nelle
reti e negli organismi consultivi e partecipativi.
Tale complessità di funzioni comporta, da una
parte, che il “lavoro” dei volontari sia oggi più impegnativo
e continuativo – quindi sostenibile da un numero
minore di attivisti rispetto a un tempo – e, di
conseguenza, che le Odv siano sempre alla ricerca
di risorse umane per realizzare la mission, con la tendenza
a fare leva sui finanziamenti, inducendo
così una professionalizzazione
e un “cambio di passo” gestionale
che le allontana dal volontariato. Dall’altra,
tale complessità accentua le
differenziazioni interne al fenomeno
tra i settori, da quelli di welfare a quelli
della partecipazione civica; per dimensioni
– grandi organizzazioni, piccole,
ma inserite in apposite reti nazionali,
piccole ma indipendenti –
per composizione – dalle compagini
di soli volontari, a enti a base associativa,
a organizzazioni miste semiprofessionalizzate
– per vocazione, da nuclei
di pura testimonianza a organizzazioni
a elevata capacità di gestione di
servizi, a unità molto specializzate.
Tra i volontari vi è oggi una maggiore
eterogeneità e complessità delle
motivazioni che conducono all’azione
prosociale con il modificarsi delle
dinamiche sociali e dei riferimenti valoriali.
La crescita più recente delle
Odv che sono espressione della volontà
di gruppi di cittadini di partecipare
e di tutelarsi, ha largamente rafforzato
la “secolarizzazione” del fenomeno
e la sua componente pluralistica all’interno
delle compagini solidaristiche.
In sostanza si nota un’eterogeneità
e polivalenza di motivazioni che suffragano
le scelte individuali al volontariato,
dove l’istanza altruistica e/o
partecipativa (il “per gli altri”) si connette
con quella autorealizzativa (il
“per sé”). Si riscontrano motivazioni
connesse con la fisionomia generazionale
dei volontari, con l’istanza
espressiva e autoformativa dei giovani,
quella partecipativa e realizzativa
maggiormente presente nel mondo
adulto, quella valoriale, religiosa e di
testimonianza che muove gli anziani.
Tuttavia, qualunque siano le motivazioni iniziali, con l’excursus dei volontari cresce, trasversalmente, soprattutto
quella di esprimere i valori in cui si crede e di dare senso all’esistenza a discapito di quella “socializzante”, pur se questa rimane per molti volontari la spinta fisiologica all’opzione per la solidarietà organizzata piuttosto che per un volontariato vissuto singolarmente, “senza divisa”.
Appare evidente che l’identità dei
gruppi di volontariato si esplicita nel
servizio più che nella condivisa matrice
culturale o visione del mondo, laica
o confessionale che sia, dei suoi aderenti.
Soprattutto nelle Odv emergenti
i membri si riconoscono nelle finalità
a cui aderiscono e nella tensione comune
verso gli obiettivi, pur nel rispetto
dei valori di riferimento ideale di
ciascuno. Vi è quindi una forte identificazione
sulla mission, per cui la scelta
di operare in una Odv piuttosto che
nell’altra dipende soprattutto dalla
condivisione di tali finalità. Da qui il
maggiore appeal delle Odv che sanno
comunicare in modo chiaro, concreto
e coinvolgente la propria ragion d’essere.
Si nota altresì un’autonomizzazione
dei singoli gruppi affiliati alle
matrici nazionali di riferimento. Si sta
passando da un rapporto di tipo gerarchico
a uno federativo (l’esempio dell’Avis
è significativo) che permette
molti gradi di libertà e di autonomia
alle affiliate. D’altra parte queste oggi
rispondono direttamente del proprio
operato nell’orizzontalità dei rapporti
con i partner locali – in ragione della valenza
territoriale delle politiche sociali
– più che nella verticalità dei rapporti
con la propria matrice nazionale.
L’incerta definizione. Chi studia
oggi il fenomeno della solidarietà organizzata
è necessariamente alle prese
con un problema di definizione.
Quale parte del fenomeno si vuole
rappresentare? Occorre pertanto delimitare
il campo di rilevazione in base a dei criteri definitori (di tipo inclusivo/ esclusivo) che condizionano inevitabilmente la rappresentatività del fenomeno.
Oggi questo si presenta più complesso di un tempo per una maggiore eterogeneità di casi:
- le Odv in linea con la L. 266 e
con i requisiti e le scelte di valore di tale
normativa-quadro: la gratuità e
l’esclusivo fine di solidarietà che sono
i due elementi che fondano il paradigma
del volontario, la sua identità e peculiarità,
nonché la democraticità;
- le associazioni di vario tipo “con
volontari” che non significa però che
essi costituiscono la risorsa determinante
per il conseguimento della specifica
mission;
- le organizzazioni
costituite da volontari
ma prive dei requisiti
di democraticità e di
autogoverno degli aderenti
(gruppi comunali
di protezione civile, dipendenti
dal sindaco o
le Caritas parrocchiali
dipendenti dal parroco,
etc.).
La gratuità “relativa”.
Anche le organizzazioni
iscritte ai registri
del volontariato
non sono sempre in linea con i requisiti
della legge come attesta la presenza
di fenomeni degenerativi rispetto
alla gratuità quando esse danno un
rimborso spese forfettario ai volontari
(cioè non sulla base di spese documentate),
al fine di trattenerli a svolgere
con costanza prestazioni richieste
da specifiche convenzioni, o non
garantiscono la gratuità assoluta delle
prestazioni chiedendo all’utenza, su
base obbligatoria o facoltativa, un corrispettivo
per una o più prestazione ricevute;
o quando i volontari non costituiscono
la risorsa determinante e
prevalente per il conseguimento delle
finalità, per cui il lavoro remunerato
(in termini di ore e/o di operatori)
è equivalente o prevalente rispetto a
quello dei volontari. Ciò si verifica nelle
organizzazioni che gestiscono servizi
importanti, che richiedono professionalità,
continuità nelle 24 ore, ripetitività,
standard di personale, spesso
definito dal committente pubblico
con cui sono in convenzione.
La presenza di queste “aree grigie”
nei registri del volontariato è di relativa
entità se si considera ciascun indicatore;
ma proiettando questi dati sul
totale delle unità iscritte (10.430 unità
esaminate nel 2006 dalla rilevazione
Fivol), queste si ridimensionerebbero
di oltre un quarto (il 25,6%)
avendo uno o più dei
seguenti deficit di idoneità.
Se non tutto il
volontariato che si rifà
ai requisiti della legge
266 sta dentro i registri,
non tutto quello
che è dentro i registri
del volontariato è
ispirato dalla legge
quadro del 1991.
Il calo di tensione
“militante”. La tendenziale
riduzione
del numero medio di
volontari continuativi,
dai 23 del 2001 ai 18 del 2006 – solo
in parte compensato dall’aumento
delle Odv in cui sono presenti i “saltuari”
– appare un indicatore di una
diminuita tensione “militante” nelle
Odv, un vero campanello d’allarme.
La presenza di tante Odv basate sull’impegno
di pochissimi volontari
comporta dei problemi come quello
dell’autoreferenzialità e la difficoltà a
realizzare forme di coordinamento
con altre unità, con il rischio o di isolarsi
e di essere una realtà marginale
o di cercare rapporti privilegiati con
l’Amministrazione pubblica. La perdita
di tensione verso l’impegno solidaristico
– in quanto vi sono oggi meno
persone disposte a farsi carico in modo
continuativo e responsabile delle
Odv – determina la presenza di molte
“organizzazioni dei Presidenti” che
proprio per questo hanno un futuro
incerto.
L’appannarsi della gratuità tra i volontari:
più “utilità sociale” e meno
“dono”? L’appannamento del requisito
di valore della “gratuità” coinvolge
anche i volontari e si caratterizza come
un dato culturale dell’attuale fenomeno,
come emerge dalle rilevazioni
2006-2008 della Fivol2. Ai 1.926 volontari
a cui è stato chiesto di indicare le
parole che identificano meglio il volontariato,
due sono state scelte da
maggioranze significative: «solidarietà
» (66%) e «utilità sociale» (62,2%).
La prima specifica lo scopo dell’azione
volontaria, la seconda il valore
aggiunto sociale della stessa. Per 63
rispondenti su 100 l’una o l’altra sono
anche quelle prioritarie. La definizione
che segue in ordine di frequenza e
di priorità è «senza scopo di lucro»
(33,1%), condizione non specifica del
volontariato e valida per tutte le organizzazioni
di Terzo settore, chiamate
non a caso proprio non profit. Solo al
quarto posto viene indicata, con diversa
priorità da 29 intervistati su 100,
«gratuità», pur trattandosi di una caratteristica
peculiare e distintiva del
volontariato, rimarcata nella Legge
266 del 1991 e nella Carta dei valori
del volontariato, e in relazione al fatto
che è l’unica componente del Terzo
settore che non può remunerare in alcun
modo i propri aderenti. Poco meno
di un quarto dei volontari identifica
il volontariato come modalità di
«partecipazione». È forse in atto un
cambiamento di paradigma nella concezione
del volontariato, più sbilanciato
sull’«utilità sociale» che sulla «gratuità
» e sul «dono», più sulla garanzia
del non profit che sulla testimonianza
dei valori, credibile proprio perché
gratuita?
L’argomento merita una riflessione
all’interno del movimento in
un frangente storico in cui si afferma
idealmente la «cittadinanza attiva» e si
valuta l’impatto sociale dell’esperienza
di volontariato nell’ottica dell’affermazione
della «gratuità del doveroso
» e quindi dell’effetto di “contaminazione”
dei valori del volontariato
che solo la gratuità può veicolare.
Il volontariato avrà un futuro solo
se sarà in grado di accettare le sfide
del tempo presente.
- La prima è quella di assolvere al
meglio la sua più importante funzione,
insieme a quella della promozione
dei diritti di cittadinanza, ovvero la
diffusione della cultura della solidarietà.
Questo perché i valori dominanti
sono antitetici a quelli del volontariato
(orientati alla competitività, al
consumismo, all’individualismo, alla
predazione dei “beni comuni”) e non
sufficientemente arginati dalle agenzie
di socializzazione, in primis la scuola,
che deve essere a sua volta sostenuta
nella funzione di formazione alla
cittadinanza. In tale contesto societario
anche il valore costitutivo della
gratuità tende a essere attenuato e
messo in discussione con conseguente
minor disponibilità all’impegno volontario
dei cittadini. Per svolgere tale
funzione, per la costruzione dell’uomo
solidale prima ancora del volontario,
oggi non è sufficiente testimoniare
quello che si è, occorre saper
utilizzare le leve della comunicazione
diretta e del contatto con la cittadinanza,
in particolare con i giovani.
In ogni caso occorre operare con
l’idea di promuovere la disponibilità
di tutti i cittadini, allargando il concetto
di attività di volontariato per includervi
non solo i militanti che si spendono
con molto impegno nelle organizzazioni
solidaristiche, ma anche i
volontari di “x” giornate l’anno, o a progetto, o disponibili a fare uno stage,
così come il volontariato di una famiglia
che tiene per un fine settimana
un bambino che sta in una comunità,
che non ha una famiglia o un minore
immigrato non accompagnato,
fino al “vicino solidale” che si può fare
carico di un bisogno, magari in
coordinamento con l’Odv. L’obiettivo
non è solo garantire turn over e ricambio
generazionale ma anche l’attenzione
solidale dei cittadini, la loro
responsabilizzazione circa i problemi,
perché il volontariato è anche scuola
di sussidiarietà e di partecipazione.
- La seconda sfida per le Odv e i
volontari è quella recuperare una piena
identità. Il volontariato negli anni
dei registri pubblici e dell’esternalizzazione
dei servizi, con la tendenziale
assunzione di responsabilità nella loro
gestione – soprattutto se non coprogettati
con il committente pubblico
– rischia di incorrere in un problema
di riduzione della propria identità.
Vi è infatti una focalizzazione molto
centrata sulla missione dell’organizzazione
che tende a comprimere
quella parte dell’identità dei volontari
che è fatta di “visione”, i valori, il
credo ideale e operativo del volontariato
(perché lo faccio? Per quale modello
di società, di persona e di welfare?).
Ciò induce le Odv a spostare la
stessa formazione dagli aspetti culturali
e valoriali a quelli di tipo tecnicoprofessionale
per rispondere agli
obiettivi di performance. Si è potuto verificare
come questo approccio generi
qualche problema di identità all’interno
delle Odv, soprattutto di quelle
maggiormente orientate alla gestione
di servizi in convenzione. Esse diventano
efficienti erogatrici di servizi, ma
perdono di vista altre fondamentali
prerogative. Inoltre, proprio mentre i
volontari aderiscono alle Odv perché
ne condividono gli obiettivi operativi
piuttosto che i valori, vi è una minor
offerta di formazione sulla cultura del
volontariato. Non è quindi un caso
che gli attivisti intervistati associno il
volontariato più all’utilità sociale e al
non profit che alla gratuità e al dono.
Sono dentro una cultura di servizio
più che della testimonianza.
Ciò rende più debole anche l’identità
dei volontari, se questa si identifica
con quello che fanno, e più problematico
l’incontro con le altre OdV o
non profit viste in qualche modo come
competitive rispetto al fare. È altresì
evidente che se l’identità è forte, perché
è chiara la visione, vi sono anche
meno problemi a confrontarsi e “contaminarsi”
con gli altri soggetti e quindi
a fare lavoro di rete e a partecipare
a coordinamenti. Ecco quindi la stessa
confusione con le altre organizzazioni
di terzo settore, problema non
solo normativo ma anche culturale,
laddove la stessa Odv perde di vista la
propria specifica prerogativa di essere
servizio e testimonianza, dono e
condivisione, a partire dalla fonte del
bisogno e non del finanziamento. Per
fare questo occorre ricalibrare la formazione
– a partire dai Csv – spostandola
sugli aspetti culturali e identitari
del volontariato, avendo chiari valori,
compiti e ruoli. Se questi ultimi possono
cambiare con le esigenze della società,
i valori restano immutabili.
- Una terza sfida per il prossimo futuro è poi quella di diventare, sui
territori, prima ancora che a livello
nazionale, un movimento coeso e unitario
di Odv capaci di incontrarsi e di
coordinarsi per poi dialogare con le
altre forze del non profit e con le amministrazioni
pubbliche, da una posizione
di autonomia di proposta. Vi è in
definitiva un problema di qualità effettiva
dei percorsi di collaborazione,
di strumenti propri della partecipazione
e di posizionamento strategico del
volontariato che ne condiziona l’effettiva
decisionalità nell’elaborazione
delle politiche sociali e del territorio.
Per esempio, i rappresentanti del
volontariato sono chiamati come consulenti
nelle fasi preliminari della preparazione
del Piano di Zona, ma vengono
di fatto disincentivati – se non
estromessi – dalla partecipazione ai
momenti di effettiva decisionalità dalle
amministrazioni pubbliche che tendono
a ridimensionare il ruolo del volontariato
come partner effettivo. Occorre
pertanto investire sulla cultura
della partecipazione e sulla formazione
delle rappresentanze del volontariato,
perché esso diventi soggetto
corresponsabile dei processi decisionali
dentro una logica di governance.
- Una quarta sfida riguarda la ricerca
di un rapporto virtuoso con le
amministrazioni pubbliche, strategico
per un volontariato che voglia essere
soggetto di cambiamento. Esso impatta
oggi nella difficile transizione
del sistema di welfare, da quello tradizionale
a quello plurale (più soggetti
attori) e della cittadinanza (persone
della comunità con i loro diritti esigibili),
e risente della forte riduzione
delle risorse per le politiche sociali
che induce nelle amministrazioni
pubbliche un uso strumentale del volontariato.
A tali effetti si aggiungono
la burocratizzazione e l’istituzionalizzazione,
indotti dal più ravvicinato
rapporto con le Amministrazioni pubbliche,
che tendono a essere più regolative
che promozionali del volontariato.
D’altra parte, anche i processi
di sofisticazione organizzativa e di professionalizzazione
interna alle Odv e
di dipendenza dalle fonti di finanziamento
pubblico – riguarda pressoché
un terzo delle Odv – tendono a ridurre
l’autonomia del volontariato e la
sua capacità di essere forza di pressione,
di partecipazione e di advocacy oltre
che strumento operativo.
Il rapporto con le istituzioni pubbliche
è bifronte. Se da una parte è denso
di rischi per le Odv, dall’altra, lo è
anche di stimoli e opportunità per la
loro crescita e qualificazione. Le ricerche
citate documentano che un volontariato
avulso dal rapporto con le
componenti istituzionali locali stenta
a crescere e corre il rischio di disperdere
le proprie risorse, mentre le Odv
più collaborative con il Pubblico –
senza assumere ruoli di gestori esterni
– sono quelle che funzionano meglio,
oltre a essere le più dinamiche.
Un rapporto con le istituzioni pubbliche
di reciproca utilità qualifica l’Odv
come agente corresponsabile dello
sviluppo della comunità.