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venerdì 20 settembre 2024
 
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Eugenio Albamonte: "Asilo, impotenti davanti a un diritto umano che vale solo per i già salvati"

20/11/2021  Il coordinatore del gruppo dei magistrati di AreaDG spiega il senso del documento diffuso nei giorni scorsi a proposito di richiedenti asilo: "Alle condizioni attuali, solo i pochi già salvati possono accedere alla giustizia per veder riconosciuto il proprio diritto, per gli altri è lettera morta"

Nei giorni scorsi la Corte di Giustizia europea di Lussemburgo ha condannato l'Ungheria accogliendo un ricorso della Commissione europea contro la cosiddetta legge "Stop Soros” approvata nel giugno 2018 dal parlamento di Budapest, che punisce con il carcere chi sia ritenuto colpevole di fornire assistenza agli immigrati irregolari che vogliono chiedere asilo nel Paese. Secondo la Corte di Lussemburgo «la configurazione come reato di questa attività collide con l'esercizio dei diritti garantiti dal legislatore dell'Unione in materia di sostegno ai richiedenti la protezione internazionale». Dentro l’Europa, dicono i giudici europei, una legge così non si può fare.

Ma resta il problema del mondo di fuori, su cui mette l’accento in un documento diffuso sui social e alle agenzie di stampa dai magistrati italiani del gruppo di AreaDG, coordinato da Eugenio Albamonte, già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, sostituto procuratore a Roma, in cui ci si interroga sui limiti dell’accordo di Dublino, sulla strumentalizzazione del diritto rappresentata dall’uso di essere umani come arma di ricatto tra Stati.

Dottor Albamonte, nel documento avete citato gli interventi di Papa Francesco e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma lo fate da magistrati coinvolgendo altri giuristi: il tema dei richiedenti asilo, oltreché un problema morale e politico, è giuridico?

«Il senso del nostro documento è accendere un riflettore sul fatto che certi diritti sono riconosciuti per tali soltanto quando si arriva sul suolo europeo e, guarda caso, oggi le geopolitiche sono tutte orientate a impedire che queste persone arrivino nel luogo in cui possano chiedere il riconoscimento dei loro diritti».

Nel documento si respira l’impotenza, un organo giurisdizionale ha il limite naturale nella territorialità. Dov’è, se c’è, lo spazio giuridico per uscire dall’impasse?

«Più che giuridico è uno spazio politico: queste situazioni oggi vengono risolte con l’utilizzo dei migranti come arma di ricatto geopolitica. Stiamo assistendo a un fenomeno per cui si incentivano grandi masse di persone a presentarsi ai confini per esercitare una pressione politica ed è esattamente il contrario di quello che si dovrebbe fare. Anziché la solidarietà tra gli stati europei nel sostenere, distribuendolo, l’onere non solo economico e giuridico ma anche sociale dell’accoglienza alle persone e del loro inserimento nel nuovo contesto, abbiamo un capovolgimento dei piani. Il fatto che se dovessero arrivare potrebbero richiedere diritti viene usata come arma impropria nei rapporti tra Stati: qualcosa del tipo: “stai attento che se vengono da te poi le devi in qualche modo accogliere, se non ti comporti come io desidero te ne faccio arrivare tanti e poi sono problemi tuoi».

Questo fa sì che a poter esercitare il proprio diritto sulla carta riconosciuto a ogni persona davanti a un giudice sia una netta minoranza?

«Rischia di arrivarci solo chi non muore lungo la strada».

La negazione per definizione del concetto di diritto umano?

«Anche la sua strumentalizzazione».

Che cosa che vi ha convinto a scrivere in questo momento?

«Le ragioni sono duplici: la prima è il nostro essere umani turbati dal susseguirsi quotidiano di immagini drammatiche che arrivano dal confine polacco o dal Mediterraneo. Come è possibile che si assista a questo senza mettere in campo una ricerca di soluzione politica? L’altra è il rendersi conto di come in tutto questo il tema del diritto abbia subito una torsione per cui è necessario tornare sull’argomento, per rappresentare la novità della situazione: le persone e i loro diritti sono umani utilizzati come strumento. Volevamo unire una voce alle poche, come quella del presidente Mattarella e di papa Francesco, che cercano di contrastare una logica seguita da segmenti dell’opinione pubblica, molto presente sui social, che chiede la negazione del diritto, la costruzione di muri, al posto delle praterie di filo spinato».

In un momento di crisi di immagine della magistratura, questo documento sarà l’ennesima occasione per accusarla di fare politica. Avete calcolato il rischio?

«È vero che la magistratura sta vivendo un momento di forte decremento della sua credibilità, perché ci sono una serie di scandali che anche grazie al lavoro della stampa sono a conoscenza dei cittadini. È vero anche che intorno a questo si è creata un’operazione politica, che è un tentativo di ridimensionamento complessivo del ruolo della magistratura, a prescindere dal merito delle storture accadute. All’interno di questo c’è una forte insofferenza nei confronti della magistratura che interloquisce sui temi sociali, culturali, in senso lato anche politici. Ma io penso che non possiamo accettare che, per effetto di vicende per le quali anche la magistratura sta chiedendo al legislatore di intervenire per trovare soluzioni che prevengano comportamenti impropri, gli scandali si traducano nel fatto che i magistrati non possano più parlare, soprattutto quando si pone un punto di vista da giuristi ponendosi in dialogo con altri giuristi, ciascuno per la propria professionalità».

Il riferimento del vostro documento è sovranazionale: il problema è il regolamento di Dublino?

«Sì e la difficoltà che hanno tutti gli Stati europei al momento nel mettere mano alla situazione sia a livello nazionale, sia nella convergenza delle rappresentanze di governi e organi europei».

Come si concilia la sostanziale impotenza di cui parlava prima con il concetto di rendere giustizia, il dovere di un magistrato che opera in un Paese in cui quei diritti sono affermati anche dai principi fondamentali della Costituzione (art.10) in un contesto sovranazionale che li riconosce?

«Il magistrato si potrebbe limitare a esercitare la sua professione in relazione ai casi di richiedenti asilo che finiscono sulla sua scrivania, alcuni per fortuna ci arrivano e possono vantare il loro diritto e vedere se viene o meno riconosciuto dalla giurisdizione. Questo è il problema giuridico formale. Ma poi c’è il problema etico: noi abbiamo creato, anche attraverso gli strumenti sovranazionali, una sorta di apparente eden del riconoscimento dei diritti, con le carte sovranazionali, con le convenzioni, con i trattati, ma di fatto è un eden chiuso, mentre tutto intorno regna la sopraffazione, la negazione del diritto, la strumentalizzazione del diritto come arma impropria e di ricatto, tutto questo pertiene alla dimensione del magistrato, attingendo più alla sfera etica che a quella tecnica della professione: noi abbiamo costruito tutte queste belle cose, ma a chi si applicano, solo a chi sopravvive?».

Il 20 novembre si celebra la giornata dei diritti dell’infanzia, ha senso in questo contesto?

«Sì e non è retorica nel momento in cui nella nostra vita quotidiana quei diritti hanno davvero la centralità. Ma resta il problema che riguardano solo i salvati che sono già dentro il nostro perimetro di giustizia e sicurezza, per quelli fuori sono lettera morta».

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