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EUTANASIA
 

Don Sciortino: "Il rispetto della dignità umana prima di tutto"

26/02/2015  Accanimento terapeutico e fine vita. Riportiamo un brano del libro "La morale, la fede e la ragione. Dialogo con don Antonio Sciortino sulla nuova Chiesa di papa Francesco" di Giovanni Valentini in cui il direttore di "Famiglia Cristiana" e il giornalista, già vicedirettore ed editorialista di "Repubblica", riflettono su questi temi.

Il brano che segue è tratto dal libro La morale, la fede e la ragione. Dialogo di Giovanni Valentini con don Antonio Sciortino sulla nuova Chiesa di papa Francesco (Imprimatur edizioni)

Il tema dell'accanimento terapeutico è un tema estremamente delicato e attuale, che ha a che fare con il bene più prezioso che è la vita. E su cui si è acceso un vivace dibattito, a seguito delle vicende di Terry Schiavo, Pier Giorgio Welby ed Eluana Englaro, di cui i mass media si sono occupati a lungo. E che fa apolino tra le tante lettere che mi arrivano per la rubrica i Colloqui col padre di Famiglia Cristiana. In una di queste, un lettore milanese di nome Mario mi scrive: Qualche mese fa, e morto mio zio, che mia sorella e io abbiamo assistito per anni, con l'aiuto di una badante. Anziano e ammalato di una grave forma di Alzheimer, era ridotto a una penosa vita vegetativa. Spesso ci siamo chiesti se fosse giusto tenerlo in vita, viste anche le sofferenze degli ultimi tempi per le terribili piaghe da decubito. Ne abbiamo più volte discusso con il medico, nostro amico, che l'aveva in cura. Sarebbe stato semplice staccare la spina.

Abbiamo, invece, continuato a prestargli le cure e l'alimentazione tramite sondino. Quando ha chiuso gli occhi per sempre, abbiamo provato un senso di dolore, ma anche un sospiro di sollievo. Per lui, che ha finito di soffrire. E per noi, che non l'avremmo più visto soffrire. Questo sollievo, però mi ha riempito di dubbi. Mi sembrava di contraddire il valore di una vita che si spegne. Soffrire senza più speranza e cognizione di quel che accade, è preferibile a una morte più o meno dolce? Forse, sì. Ma, allora, perché si prova sollievo quando qualcuno smette di penare? Non ci trasformiamo in una sorta di torturatori, quan­do ci ostiniamo a prolungare, in modo artificiale, una vita di sola sofferenza? Perché negare per legge a chi, pienamente cosciente, decide di porre fine alla propria sofferenza? Per­ché impedirglielo? E poi, chi dovrebbe predisporre una legislazione in merito?

Certo, non mi tranquillizza che a farla sia una classe politica che, spesso, legifera solo per raccattare voti e per ragioni di potere. E come si può disciplinare una materia così delicata? Ovvio che si dovrebbero predispor­re adeguati strumenti per evitare abusi. Non so se su que­sto tema si possano avere certezze assolute. E, allora, perche questo mio sfogo? Forse, perché non so se la nostra decisione di non staccare la spina sia stata un atto di coraggio o di viltà.

Una storia di sofferenza come tante altre, al limite della sopportazione umana, che pone una serie di domande, e le risposte non sempre convergono nella stessa direzione. C'è chi rivendica il diritto assoluto di decidere autonomamente sulla propria vita, e chiede alla legge che gli venga riconosciuto. E c'è chi, invece, non solo tra i credenti, ritiene che la vita non sia un bene disponibile. Perché  nessuno ha il diritto di delimitarne i tempi, per sé e per gli altri, anticipando la morte con un'azione diretta o con l'omissione di cure. Così come non è neanche giusto accanirsi e posticiparla a ogni costo e con ogni mez­zo, a scapito della dignità del morire umano.

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