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Il Papa a Cesena
 
Credere

Ezio e Simona Nobili: la nostra casa famiglia sotto lo stesso tetto del vescovo

28/09/2017  I coniugi della Comunità Giovanni XXIII accoglieranno persone in difficoltà. E il Papa farà loro visita il 1° ottobre

Ezio Nobili e Simona Sarti, lombardo di 45 anni lui e romagnola di 44 lei, incontrano Credere al mattino presto. Sono in pieno trasloco: nelle scorse settimane sono diventati i responsabili della prima casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII all’interno dei locali di una curia. Il loro vicino di pianerottolo sarà il vescovo di Cesena Douglas Regattieri. Come spiega il presidente della Comunità fondata da don Oreste Benzi, Giovanni Ramonda, «è la prima casa famiglia, fra le circa 600 sparse nel mondo, che va direttamente ad abitare a fianco di un vescovo». Continua: «Lo aiuteremo ad aprire le porte della sua casa ai poveri».

Nella sua visita a Cesena, papa Francesco farà tappa anche qui, incontrando la famiglia Nobili e i loro primi ospiti.

UNA FAMIGLIA “ALLARGATA”

Non sanno ancora chi accoglieranno: «L’ospitalità», spiega Ezio, «sarà frutto di incontri personali, o di segnalazioni di altre realtà della Comunità, oppure inviati dai servizi sociali». Potrebbero essere bambini e ragazzi con problematiche varie, profughi, carcerati, donne in difficoltà o – come succedeva nella precedente casa dove abitava la famiglia Nobili, in Spagna – persone senza dimora. «Tutti», dicono i due coniugi, «saranno parte della nostra famiglia “più larga di quella naturale”». Sintetizzando con le parole di don Oreste, «dare una famiglia a chi non ce l’ha» e «ri-generare nell’amore».

CORAGGIO E RESPONSABILITÀ

  

La scelta è nata da una richiesta del vescovo di Cesena: gli uffici della curia si trasferivano e monsignor Regattieri si era fatto interrogare dalle parole di Bergoglio in visita al Centro Astalli di Roma. «I conventi vuoti non sono vostri», aveva detto lasciando sbalorditi tanti, «sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio». I responsabili della Comunità fecero la proposta ai coniugi Nobili, che rientravano in Italia dopo otto anni nella diocesi di Guadalajara, insieme ai loro quattro figli naturali che oggi hanno 13, 11, 9 e 7 anni. «Il nostro», ci tiene a precisare Simona, «è stato un sì familiare, dopo un tempo di discernimento condiviso con i bambini. Abbiamo chiesto al Signore di entrare nel loro cuore, nella quotidianità infatti ci troviamo tutti a condividere l’accoglienza». Dell’esperienza spagnola Simona racconta come era rimasta colpita dalla naturalezza con cui i bambini, accompagnati dai genitori, avevano vissuto la malattia e la morte di Manolo, un senza dimora colpito dal tumore e ospitato nella loro casa alle porte di Madrid.

EUCARISTIA E PAROLA

C’è un altro aspetto che Ezio e Simona tengono a condividere con i figli: la preghiera. «All’interno delle case famiglia», racconta il marito, «ci sono diverse vie per condividere l’incontro di Gesù nel povero. Nella nostra è partire dalla preghiera, sia per noi, sia per i nuovi membri del nucleo familiare». In casa loro, in una piccola cappella, è esposto il Santissimo – «un grande regalo» – che è una particolarità concessa da Wojtyla alla Comunità Papa Giovanni. «Fare di Cristo il cuore del mondo» è l’insegnamento che provano a vivere. Spiega Ezio: «Ogni giorno cerchiamo di leggere la Parola, ma la preghiera viene modellata a seconda di chi vi partecipa». E Simona aggiunge: «Con i nostri figli abbiamo sperimentato che relazionarsi con il Signore come presenza viva diviene una pratica naturale. Occorre però trovare una modalità vicina al loro linguaggio: il canto aiuta, in questo mese stiamo pregando con il Rosario per i bambini, più corto e cantato».

Chiedo ai due coniugi delle loro origini. Ezio è di Varese, ha studiato e lavorato come florovivaista in una cooperativa sociale della Papa Giovanni che favorisce l’inserimento lavorativo per persone con problemi. «Però», dice, «avevo nel cuore la missione e successivamente sono stato in Brasile e Tanzania. È stata anche l’occasione per maturare la vocazione per diventare membro della Comunità». Oggi ha alcuni incarichi nella realtà fondata da don Oreste, seguendo in particolare i lavori del Parlamento europeo.

«Oltre all’azione diretta a favore dei poveri», si attacca Simona, «vogliamo rimuovere le cause delle ingiustizie, essendo voce di chi non ha voce». Lei è laureata in Economia e lavora come supplente nelle scuole pubbliche. È di Rimini, terra di don Oreste, conosciuto ai “lunedì della fede” nella sua parrocchia di periferia (Grotta Rossa). Del sacerdote ricorda l’invito dopo la laurea: «Tu sarai un’economista dei poveri».

La grande scoperta per Ezio e Simona è stata che la famiglia può essere più larga di quella naturale: «Devi scoprire la ricchezza di ciascuno, mettendoti in discussione». Ci sono anche le fatiche: per Simona «è stato difficile accogliere in casa donne con altre abitudini nel pulire la cucina». Due immagini evangeliche guidano la coppia: «Quella dei primi apostoli, ciascuno con le proprie fragilità (dall’esattore delle tasse Matteo al traditore Pietro) ma anche le proprie ricchezze; quella del tesoro in vasi di creta, da scoprire nelle persone accolte e dentro di noi».

FRAGILITÀ DA ACCOGLIERE

  

È quello che hanno provato a vivere negli otto anni vicino a Madrid: «Don Oreste», dice Simona, «ci ha insegnato ad andare a cercare i poveri là dove sono, senza aspettare che bussino alla porta. Siamo andati in strada a incontrare i senza dimora, persone segnate da grandi rotture familiari: in Italia è una modalità utilizzata da molte associazioni, in terra iberica una novità». Avevano un seminterrato – «ci ricordava la capanna di Betlemme» – e iniziarono ad aprirlo a uomini e donne con cui i servizi sociali non riuscivano a entrare in relazione: «Un piatto caldo e l’amore di una famiglia sono state la spinta per uscire dalla dipendenza dall’azzardo, alcol o droga per diversi di loro. E dopo il periodo nel seminterrato venivano ad abitare insieme a noi, nelle nostre stanze».

Juan, che all’inizio nascondeva le mani perché non voleva stringerle a nessuno, è diventato il nonno dei bambini. Manolo, nei suoi ultimi mesi, «è stato capace di ricoprire noi e i nostri figli di un tale amore». Asunción, anche lei malata terminale che non aveva copertura sanitaria, aveva abbandonato le figlie adolescenti per la dipendenza dal gioco. Ha vissuto l’ultimo periodo con la famiglia italiana; per non farsi ritrovare non aveva mai chiesto la residenza, perdendo così il diritto alle cure. «Siamo stati», ricorda commossa Simona, «il ponte con le due figlie, con cui non parlava da anni. Quando si sono riviste, Asunción non aveva voce perché il tumore le aveva distrutto la gola, ma fu un incontro carico di amore». È proprio «forti di questa straordinaria ricchezza ricevuta dall’amore dei fratelli poveri» che oggi i Nobili ripartono dalla casa di Cesena.

Foto di Fabio Boni

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