È forse un luogo comune quello secondo cui un papà in carriera, lasciato solo con i suoi gli dalla mamma/moglie tutto fare, non è in grado di combinare nulla. Vero o falso che sia, il recente film 10 giorni senza mamma (regia di Alessandro Genovesi), una piacevole sorpresa nel panorama delle commedie italiane basata proprio su questo escamotage, è davvero divertente. Mattatore è Fabio De Luigi, che nella vita privata è papà di Dino e Lola (11 e 7 anni). Interpreta la parte di Carlo, manager assorbito dal lavoro, viziato dal fatto che la moglie Giulia (Valentina Lodovini) ha rinunciato alla carriera per dedicarsi alla famiglia, finché non decide di prendersi una vacanza. Eccolo allora combinare pasticci, costretto a districarsi tra cambi di pannolini, accompagnamenti alle attività pomeridiane, gruppi di WhatsApp e drammi amorosi adolescenziali.
Avendo visto il film la prima domanda è d’obbligo: quando i suoi figli erano piccoli era imbranato come Carlo?
«Assolutamente no. Sono stato un grande cambiatore di pannolini».
E con le chat delle mamme come la mettiamo?
«Mi è successo veramente proprio come nel film (ride). Ci sono finito dentro. Ma per errore di un’amica. Ne sono uscito immediatamente. È durato poco ma è stato un incubo. Il telefono ha cominciato a bollire e a emettere suoni curiosi. Credo che siano la grande piaga di questo millennio».
E l’inserimento al nido? Se ne è occupato lei o sua moglie?
«L’ho fatto con il mio primogenito... e sono a posto così. La scena che interpreto è drammaticamente vera. Non te ne puoi andare fino a che il bambino non accetta il nuovo ambiente e i suoi compagni. Può passare un minuto come una mattinata. Quel giorno è meglio non avere impegni».
Alcune scene, davvero esilaranti, catturano l’interesse femminile. Il film piacerà anche ai papà?
«Qualche marito potrebbe stizzirsi per orgoglio ferito e perché, come me, sa di essere perfettamente in grado di badare alla famiglia. Ma ragionando per stereotipi può capitare che un papà abbia difficoltà a fare “cose da mamma”. Nel film, tuttavia, si parla soprattutto della vita frenetica che ci fa perdere di vista i figli. Si affrontano con leggerezza temi non superficiali come il rapporto tra adulti e ragazzi».
È giusto che siano diversicati i ruoli femminili e maschili?
«È evidente che papà e mamma sono diversi per natura. Ma non ci sono più ruoli prestabiliti in famiglia. Soprattutto, con entrambi i genitori lavoratori, è sacrosanto gestire insieme la famiglia».
In che stato di salute è la commedia all’italiana, un genere che lei rappresenta degnamente?
«Direi buono. C’è voglia di sperimentare e di esplorare l’area dei prodotti per famiglie. Certo è dura scontrarsi con giganti stranieri dai budget stellari e con trame scritte dagli sceneggiatori più bravi del pianeta. Ma con le nostre commedie intercettiamo ancora l’identità nazionale».
Il fratello di sua nonna era il poeta Tonino Guerra... Lo ricordiamo per lo spot sull’ottimismo. Lei gli somiglia?
«Io no. Ho abbracciato il pessimismo di Leopardi sin da piccolo, e non sono cambiato. Mi definisco “realista tendente al peggio”. Probabilmente è una forma di protezione contro le delusioni della vita».
È vero che ha giocato a baseball in serie A? Non è proprio lo sport dell’italiano tipo...
«Mi sono reso conto della stranezza solo da grande. Dove vivevo io a Sant’Arcangelo di Romagna e dintorni c’erano molte squadre di alto livello e lo giocavamo per strada. Poi ho scoperto che eravamo strani noi e che tutti i ragazzi italiani correvano dietro al pallone. Ho provato a farlo amare a mio figlio. Dopo una lezione ha detto: “È bellissimo” ma non è più voluto tornare. Gioca a calcio come gli altri».