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martedì 15 ottobre 2024
 
 

Fabio Mauri, l'arte in prima persona

04/08/2012  Gli episodi chiave della guerra, la ricerca spirituale, l'impegno civile dell'intellettuale nel ricordo del fratello Achille, mentre una mostra a Milano ne ripercorre la parabola.

È difficile riassumere in una sintesi compiuta un percorso umano e intellettuale tormentato, ricco e complesso come quello di Fabio Mauri (1926-2009), scrittore-filosofo-artista-insegnante-editore, insomma intellettuale a tutto campo, a cui Milano rende omaggio con una bella rassegna a Palazzo Reale. Due frasi ci aiutano almeno nel tentativo di raccoglierne il messaggio. La prima la dobbiamo alla critica Lea Vergine, che chiama in causa un distico di Valéry: «Il pittore si dà con il suo corpo». La seconda appartiene allo stesso artista: «Vorrei dimostrare ciò che credo: l'arte, essa stessa, come garante, non sciocca, non mercantile, di valore».

Chi vorrà  visitare l'allestimento a Palazzo Reale delle oltre cento opere in dodici sale non potrà evitare di sentirsi scosso, toccato, interpellato. Se è dato individuare un filo conduttore fra le sue molteplici esperienze e opere, esso va ravvisato nell'inesauribile indagine sull'origine del male.  Mauri è sconvolto, scandalizzato dal male, nelle infinite forme in cui si manifesta nella storia. Il dolore del mondo lo riguarda da vicino, se ne fa carico, fino a crollarne sotto il peso insostenibile. Sebbene non ebreo, visse intimamente la tragedia della Shoah, con cui continuò a misurarsi per un'intera esistenza. La serie Ebrea o il celebre Il muro occidentale o del pianto sono le testimonianze più alte di questa dolorosa ricerca, di questa attestazione di solidarietà universale.

È la storia, colma di inganni e false ideologie, il campo di battaglia dell'intellettuale e dell'artista. Molto gioverebbe al dibattito sul ruolo dell'intellettuale il confronto con l'opera di Mauri. Così come molto avrebbero da imparare gli artisti di oggi, innamorati di performance fine a se stesse o tese, al massimo, a esaltare il loro narcisismo. Certo, Mauri è precursore dell'arte come performance, fu tra i primi a mettere in gioco se stesso, tuttavia sempre con l'obiettivo di rendere attore lo spettatore, indotto a lasciarsi emozionare e a prendere posizione. Per lui la ricerca artistica era decisamente impegno civile, estremo tentativo a spiegare il male del mondo. Per dargli sollievo.

Dietro alle tante iniziative a cui diede vita va sempre tenuta presente quest'ansia, quest'autentica vocazione, fin da quando, giovanissimo, fondò la rivista Setaccio, fu tra i creatori del Gruppo 63 o protagonista del giornale Quindici.

«Uno dei primi ricordi di mio fratello Fabio è di quando eravamo chiusi in cantina con le bombe che fuori piovevano dal cielo», ricorda Achille Mauri, noto editore. «Io ero più piccolo di molti anni rispetto a lui. Amico di Pier Paolo Pasolini e dei fratelli Pontecorvo, fondarono la rivista Setaccio, in cui davano tutto loro stessi, ma ancora erano "distaccati" dalla realtà tragica di quei tempi, non essendo né comunisti né partigiani e provenendo da famiglie borghesi. Lo svolta avvenne quando lo chiamarono alle armi. Non resse e fu mandato in un ospedale psichiatrico, da cui fuggì. Quando, finito il conflitto, arrivarono le notizie tragiche sulla sorte dei suoi amici, provò un dolore intollerabile, che lo segnò fino all'ultimo dei suoi giorni. Vediamo quel muro di valigie, ciascuna con la sua etichetta, come se la destinazione fosse un viaggio. Poi sorge la domanda: che ne è stato di quelle persone? La risposta era per lui insopportabile. Cominciò a frequentare conventi, da cui veniva cacciato perché aveva atteggiamenti eccessivi. Padre Turoldo fu suo grande amico, tanto che gli illustrò alcune poesie».

Il filo dei ricordi ci porta a Civitavecchia, al Villaggio dei bambini dove un prete aveva raccolto gli orfani.
«Vi restò otto anni come istruttore. E quando se ne andò si portò dietro alcuni di loro, che divennero di fatto nostri fratellastri», continua Achille Mauri. «Da quel momento la sua carriera di pittore-scrittore ricevette un'accelerazione, senza che mai staccasse lo sguardo dalle tragedie che lo avevano sconvolto. Oggi siamo assuefatti, ma l'alienazione alla brutta notizia per lui era impossibile». Raramente si coglie la dimensione spirituale della ricerca di Fabio Mauri, eppure centrale. «L'ossessione di mio fratello era che si potesse calcolare Dio. Nel suo ultimo libro, Le piccole provinciali, si domandava se il bello potesse essere rappresentato. Era ammaliato dalla visione dantesca dell'aldià, cercava il divino non nel macro bensì nel micro, la morte per lui era rinascita... L'umanità era un'unica grande persona, distinta solo nei corpi mortali».

Pienamente valido è, ancora oggi, l'augurio che Achille Mauri gli rivolse nel necrologio alla sua morte: «Fabio, sii felice». Forse ha finalmente trovato quel che ha cercato per tutta la vita.

La mostra: Fabio Mauri. The end, Milano, Palazzo Reale, fino al 23 settembre.
I libri: il catalogo Fabio Mauri. The end a cura di Francesca Alfano Miglietti edito da Skira; il saggio Fabio Mauri. Ideologia e memoria a cura dello Studio Fabio Mauri e con la prefazione di Umberto Eco, edito da Bollati Boringhieri.

 
 
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