Scrittore e bibliotecario: è la doppia anima di Fabio Stassi, apprezzato autore di numerosi romanzi editi in gran parte da Sellerio e in servizio da molto tempo presso la Biblioteca di Studi Orientali della Sapienza. «Stavo ancora studiando lettere quando è uscito un concorso per aiuto bibliotecario alla nascente Tor Vergata. Mi sono ritrovato a 23 anni a lavorare in una biblioteca di Medicina, ma ho fatto subito domanda per essere trasferito a quella della facoltà di Storia della Sapienza, disciplina a me più affine visto che mi ero nel frattempo laureato con una tesi in Storia del Risorgimento. Sono rimasto lì per un quarto di secolo, e da tredici lavoro in invece in quella di Studi orientali insieme a colleghe e colleghi bravissimi che cui condivido la stessa passione».
Una vita tra i libri, letteralmente…
«Sì, ho visto l’università e le biblioteche cambiare. I concorsi per nuovi assunti sono stati sempre più rari, e la più giovane neoassunta, di 31 anni, è appena entrata dopo un vuoto lunghissimo. Chi va in pensione non è sostituito: c’è bisogno non soltanto di più personale ma soprattutto di personale giovane, della loro energia, del loro entusiasmo. Qualcuno a cui trasmettere il testimone».
Perché non si investe nelle biblioteche?
«Purtroppo non sono considerate uffici strategici, ma quasi dei luoghi accessori, non essenziali. Si confonde una biblioteca con una sala studio, e non si investe come si dovrebbe».
Le biblioteche universitarie che ruolo hanno?
«Oltre a essere un luogo di raccolta di documenti (noi possediamo 150.00 volumi) sono spazi fondamentali per la vita sociale degli studenti: creano comunità, promuovono la lettura e la cultura in varie forme. La nostra è aperta fino a mezzanotte. Abbiamo un gruppo di lettura e di visione di film, partecipiamo a molti progetti, presto realizzeremo dei podcast. Grazie ai viaggi che mi ha regalato la scrittura, cerco sempre di “rubare” buone idee alle biblioteche europee che mi trovo a visitare, e che sono ancora molto avanzate rispetto alle nostre».
Quando è iniziato il suo amore per le biblioteche?
«Dall’epoca in cui andavo alle elementari. Eravamo una famiglia emigrata a Roma dalla Sicilia occidentale, in casa mia c’erano pochi libri. Ma per fortuna la mia scuola elementare possedeva una biblioteca. Il primo libro che presi in prestito fu La leggenda di Sigfrido, poi a 20 anni mi innamorai delle edizioni Sellerio, anche perché era una casa editrice siciliana, il mio sogno era un giorno pubblicare con loro: in un certo senso avrebbe significato tornare a casa».
E poi in effetti ha coronato il suo sogno...
«Ho iniziato a pubblicare tardi. Il mio primo libro è uscito quando avevo 44 anni, dopo molti rifiuti. Fino a quando Minimum fax ha creduto in me con È finito il nostro carnevale. Nel 2013 è iniziata la mia avventura con Sellerio e da allora non ci siamo più lasciati».
Se pensa ad altri bibliotecari scrittori chi le viene in mente?
«A parte Borges, un altro argentino Alberto Manguel, diventato poi direttore della biblioteca di Buenos Aires, una delle più belle del mondo. E tra gli italiani Luciano Branciardi, che all’inizio della sua carriera ha lavorato come bibliotecario».
Ha mai pensato di lasciare il lavoro per dedicarsi solo alla scrittura?
«Con tre figli sarebbe stato un azzardo. Ma per me la biblioteca resta un luogo speciale, e il migliore sinonimo che conosco della parola speranza. Anche i miei romanzi, in fondo, hanno la forma di piccole biblioteche, perché finisco sempre per parlare di altri libri. Ho anche scritto un piccolo Dizionario in cui ho dato voce, in prima persona, a trecento personaggi dei più grandi scrittori del secondo Novecento. Io credo che siamo fatti dei libri che abbiamo letto, le nostre letture sono una sorta di autoritratto».
Lei ha creato il personaggio di Vince Corso, ex insegnante diventato biblioterapeuta e investigatore e protagonista di tre romanzi. Davvero si può “curare” attraverso i libri? Lei ci ha provato?
«Una volta a un incontro in Sardegna mi hanno allestito un ospedale da campo e mi hanno fatto indossare un camice. All’inizio è stato divertente, poi è diventato molto serio. Sì, i libri possono anche salvarti la vita. Sarebbe bello se tutti noi tenessimo, a portata di mano, sul comodino del letto, Il libro degli abbracci di Galeano».