La guerra, se di guerra si tratta, è già stata dichiarata: «Quello spettacolo non s’ha da fare». Sul concetto di volto nel figlio di Dio, la pièce teatrale di Romeo Castellucci dall'estate del 2010, quando fu inaugurata alla manifestazione Theater der Welt di Essen (Germania), provoca, fa discutere, suscita gli animi. E molto. In questi ultimi giorni, poi, la polemica è sbarcata a Milano, dove l’ultimo lavoro teatrale dell’artista cesenate sarà rappresentato da martedì 24 a sabato 28 gennaio in sala mentre fuori, nella piazza antistante al Franco Parenti, il teatro che ospiterà l’evento, alcuni fedeli raccolti effettueranno preghiere di riparazione e rosari, cercando di riparare. “Riparare” cosa? L’offesa a Dio che lo spettacolo rappresenterebbe in scena, secondo alcuni gruppi cattolici coordinati dal Comitato San Carlo Borromeo.
Non ci sono solo polemiche, per la verità, visto che Andrée Ruth Shammah, storico direttore artistico del Parenti sulle pagine del Corriere della Sera di qualche giorno fa nel denunciare un clima da “caccia alle streghe” causato da messaggi e mail di insulto e di minaccia ma anche di richiesta esplicita di annullare lo spettacolo, chiedeva «l’intervento delle autorità civili e religiose» per difendere la sua scelta di programmare e mettere in scena la contestata pièce.
La paura, evidentemente, è quella di ripetere in terra ambrosiana quello che è accaduto a Parigi lo scorso 20 ottobre in occasione della première dell’opera di Castellucci: alcune persone – riferibili a gruppi ultracattolici di destra del Renouveau français, dell’Action Française e dell’associazione Civitas, quest’ultima molto vicina a circoli lefebvriani – hanno fatto irruzione sul palco del Théâtre de la Ville de Paris durante lo svolgimento dello spettacolo e interrompendolo con la forza perché accusato di essere blasfemo. Una bestemmia contro Dio – secondo loro – il volto del cui Figlio Gesù, nella straordinaria interpretazione rinascimentale di Antonello da Messina intitolata Salvator Mundi (oggi conservata alla National Gallery di Londra) campeggia sovrano sullo sfondo della scena, quasi a interrogare direttamente lo stesso spettatore che vi assiste prima che la trama reale che vi si svolge: quella di un figlio che accudisce un padre gravemente malato, tanto malato da essere incapace di trattenere le feci.
La pièce si conclude con la discesa sul dipinto di un liquido nerastro, l’inchiostro delle Sacre Scritture che si scioglie davanti alla straziante scena secondo l’interpretazione del regista pubblicata sul sito del Parenti. Inchiostro che copre via via il volto di Cristo fino a cancellarlo, quasi a significare il crollo di tutto, anche dell’ultima speranza a cui attaccarsi. Con una scritta che fa la sua apparizione: “Tu sei il mio pastore”, famosa frase tratta dal salmo 23, e la particella “non” lampeggiante che fa capolino tra le prime due parole (“Tu non sei il mio pastore”), a ricordare, come sostiene Castellucci, che la fede vive, nei momenti più bui come quello della “scatologica” finitezza umana, il dramma del dubbio. Per la verità la versione completa del finale, che per motivi tecnici – troppo angusto lo spazio sul palco milanese – è stata “tagliata” nelle rappresentazioni di Milano, prevede l’ingresso in scena di alcuni bambini che cominciano a lanciare granate-giocattolo (e non feci, come da più parti si è detto, e come ha più volte negato lo stesso Castellucci) contro il Volto del Cristo.
Bestemmia contro Dio? Cristianofobia? Urlo al cielo in forma di imprecazione, genere letterario non certo sconosciuto nella Bibbia? A ognuno la sua interpretazione. Certo è che – a parte Parigi e Milano – la pièce teatrale è passata per molte altre città (fra cui Anversa, Roma, Madrid, Barcellona, Oslo, Atene, Londra, Mosca, Rennes) senza colpo ferire. E senza polemiche ma piuttosto, come ha detto il regista in occasione della presentazione alla stampa milanese di qualche giorno fa, con «dibattiti tra gli spettatori, fra cui anche credenti».
A proposito di interpretazioni, alcuni vescovi si sono già espressi in questi mesi sul tema. Da ultima la Curia milanese che, interpellata direttamente dalla direzione artistica del Parenti, ha mosso in un suo comunicato una velata critica allo spettacolo evidenziando, da un lato, che la «libertà di espressione, come ogni libertà, possiede sempre, oltre a quella personale, anche una imprescindibile valenza sociale», invitando tuttavia, dall’altro, i fedeli a non far accompagnare la preghiera con «eccessi di qualunque tipo». E se il vescovo di San Marino-Montefeltro, Luigi Negri, ha pubblicamente stigmatizzato lo spettacolo tacciandolo di “anticristianesimo”, la Segreteria di Stato vaticana, in risposta a una missiva del teologo domenicano p. Giovanni Cavalcoli che aveva scritto sollecitando una sua presa di posizione, ha auspicato che «ogni mancanza di rispetto verso Dio e i Santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana».
Diverse invece le posizioni Oltralpe. La Conferenza episcopale francese, mentre qualche mese fa criticava senza appello Golgota picnic, un altro pezzo teatrale del regista ispano-argentino Rodrigo García espressamente e volutamente blasfemo rappresentato a Parigi, a proposito dell’opera di Castellucci si rifiutava di manifestare lo stesso stigma. Addirittura l’arcivescovo di Rennes, Monsignor Pierre d’Ornellas, in occasione dell’arrivo nella sua città della pièce teatrale, sul sito della sua diocesi invitava i fedeli a prendere del tempo per capire in profondità il senso dello spettacolo. E concludeva: «È chiaro che non c’è cristianofobia in questo pezzo teatrale». Anche le posizioni “laiche” divergono, con qualche sorpresa: Antonio Socci ad esempio ha scritto il 20 febbraio su Libero che impedendo la messa in scena «si rischia di gettar via un’opera che si interroga sul mistero del dolore e su Gesù».
Stefano Stimamiglio
Che dire, dunque, dello spettacolo? Innanzitutto ci vuole il rispetto della fede per i “piccoli”, quelli che – e girando per il web non sono pochi – hanno una fede essenziale, semplice, avulsa dal discettare filosoficamente se quel gesto significa questo o quello. E che rimangono scandalizzati, offesi – ci mancherebbe! – che del Cristianesimo ci si possa prendere, come accade purtroppo sovente, tranquillamente dileggio, magari spesso in cattiva fede, mentre il virus del “politicamente corretto” fa sì che gli artisti evitino accuratamente di lanciare le stesse provocazioni agli aderenti ad altre religioni, i musulmani in primis, per non ricavarne una garantita quanto scomodissima fatwa a vita.
Di qui, però, a dire che è sicuramente bestemmia, soprattutto alla luce di quanto ha detto e ripetuto più volte il regista, ne passa. Se lo scandalo, per il nostro Catechismo, diventa una colpa grave quando «chi lo provoca deliberatamente spinge altri a peccare» (n. 2326), sembra, fino a prova contraria, che non sia stata questa l’intenzione del regista: niente blasfemia, niente apologia della dissacrazione. Castellucci, dopo aver confessato in un’intervista al Festival di Avignone (luglio 2011) di aver vissuto, sfogliando un libro, una qualche sua personale “chiamata” incrociando lo sguardo col Cristo di Antonello da Messina, ha dichiarato nella lettera pubblicata sul sito del teatro Parenti riguardo alla scena del lancio delle granate: «Un gesto violento vuole significare la fragilità umana e il bisogno di amore».
Probabilmente, è questa la nostra idea, la libertà di espressione artistica, oltre che costituzionalmente garantita (art. 21, con il solo limite del “buon costume”), può diventare per lo stesso Cristianesimo – soprattutto alla vigilia dell’Anno della Fede indetto dal Santo Padre (11 ottobre 2012 – 24 novembre 2013) – un’occasione per provocare le coscienze addormentate della nostra epoca, un’epoca dalle “passioni tristi”, così ben descritta da Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro omonimo libro (L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004). Forse che Gesù era esente dalla provocazione e dallo sferzare per parlare alla sua gente?
Sarà la storia, come sempre, a emettere la sua sentenza definitiva e senza appello sullo spettacolo, così come ha fatto con infinite altre opere ritenute “blasfeme” nel loro tempo e poi, magari, rivalutate o lette diversamente dalle generazioni successive. È il caso, ad esempio, del Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi, e della sua Madonna dei palafrenieri, tela conservata oggi alla Galleria Borghese di Roma. L’opera, destinata nel 1605 all’altare della chiesa di Sant’Anna in Vaticano, venne subito ritirata perché ritenuta blasfema, oltre che eretica. Gesù infatti – ritratto “scandalosamente” nudo in età non più puerile (a circa sei anni) e tenuto da una Madonna troppo “scollata”, la cui immagine oltretutto era stata ispirata all’artista da una nota prostituta romana – nella tela posava il suo piede su quello della Madonna nell’atto di schiacciare la testa al serpente, circostanza che sembrava favorire teologicamente le tesi protestanti – in un tempo ancora troppo vicino alla rottura di Lutero con Roma – sul ruolo della Grazia da attribuirsi, per i luterani, esclusivamente a Gesù e, per i cattolici, invece principalmente a Maria. Mutatis mutandis è poi forse il caso, per venire a tempi più recenti, del lungometraggio L’age d’or (1931) di Luis Buñuel e Salvador Dalì, uno dei manifesti di quel Surrealismo dissacratore di ogni autorità costituita, fra cui la gerarchia ecclesiastica, incarnazione “cult” dello spirito antiborghese e anticlericale del periodo tra le due guerre. Il film venne ritenuto gravemente offensivo dei valori cristiani e ritirato dalle sale per avere fra l’altro rappresentato il Duca di Blangis, peccatore incallito, nelle sembianze di Gesù. Ebbene quegli stessi autori, Buñuel e Dalì, pur in una dimensione oniricamente dissacratrice della religione, nella loro produzione artistica hanno riservato un grande spazio alla tematica religiosa e rappresentano oggi, comunque la si veda, una tappa fondamentale per capire lo spirito religioso dell’epoca. Discorsi analoghi potrebbero farsi per Jesus Crist Superstar, film certamente non “ortodosso” e forse neanche espressione autentica del Vangelo, ma opera neppure da stigmatizzare senza appello, se ancor oggi costituisce per qualcuno un primo “eterodosso” approdo alla conoscenza del Volto del Salvatore. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Un’ultima considerazione, forse consolatoria ma cercando di essere il meno possibile ingenui. Come anche l’ultima edizione della Biennale di Venezia ha mostrato, il soggetto religioso, alla faccia della secolarizzazione, è tra quelli che più ispirano l’arte contemporanea. Come a dire che il repertorio simbolico cristiano, pur interpretato con estrema (anarchica?) libertà dagli artisti, non viene (ancora?) messo in soffitta. Anche se purtroppo – è quasi retorico dirlo – raramente produce quel “bello autentico” che, come ha detto il Papa agli artisti incontrandoli nella Cappella Sistina il 21 novembre 2009, «porta a un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello».
Stefano Stimamiglio
Uno spettacolo teatrale che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una supplica, un grido di dolore rivolto a Dio, una riflessione sulla condizione umana, è stato considerato offensivo e addirittura blasfemo da alcuni movimenti cattolici. Romeo Castellucci, originario di Cesena, 51 anni, è un regista affermato a livello internazionale. Fondatore della Societas Raffello Sanzio – una compagnia teatrale caratterizzata da un forte sperimentalismo – ha vinto numeri Premi Ubu (il massimo riconoscimento della categoria), nel 2002 è stato nominato Chevalier des Arts et des Lettres dal Governo francese, nel 2005 è stato direttore della sezione teatro della Biennale di Venezia... Direttamente dalla sua voce, cerchiamo di capire quali questioni intendeva affrontare nel controverso Sul concetto di volto nel figlio di Dio, al Teatro Parenti di Milano dal 24 al 28 gennaio.
- Castellucci, dal suo punto di vista, qual è il senso autentico della pièce?
«Il senso di un’opera d’arte appartiene allo spettatore. Il teatro non è pedagogia, né può pretendere una lettura univoca. Attraverso segni e simboli, si fa riferimento a un immaginario collettivo. In questo caso, il volto di Gesù. E fin dall’inizio ero ben consapevole che si trattava di un’immagine universale».
- Perché ha fatto ricorso al volto di Gesù, rappresentato dal ritratto di Antonello da Messina?
«Per avviare una riflessione, un cammino. La pièce nasce da un mio personale incontro con questo ritratto misterioso: sono stato rapito dalla dolcezza di quel volto. Mi sono sentito guardato, come se mi rivolgesse un appello, al quale non ho potuto resistere».
- Lo spettacolo però è imperniato sul rapporto fra un padre e un figlio: il genitore, ormai vecchio e incontinente, deve essere accudito dal figlio…
«Ho voluto presentare la condizione umana, in tutta la sua caducità, non per sadismo, semmai cercando di essere realista. L’ho esemplificata nel rapporto fra un padre e un figlio, alla luce del Quarto Comandamento. Quale forza ha, questo “Onora il padre e la madre”, se preso alla lettera? Il figlio che metto in scena ci crede fino in fondo, pulisce il genitore, lo cura… Tutte le famiglie conoscono situazioni simili, non c’è nulla di sadico nell’evocarle. Anzi, in queste situazioni emerge il linguaggio dell’amore, che si traduce anche in una spugna che deterge gli escrementi».
- E in quale rapporto si pone una rappresentazione così realista e cruda con il volto di Cristo?
«Gesù guarda non solo la scena, ma anche lo spettatore. Instaura con lui uno scambio, fino a trascinarlo sulla scena. Questo, se vogliamo, è l’aspetto più “sgradevole” dell’assistere a uno spettacolo teatrale: veniamo interrogati sul nostro destino. Poi ognuno dà la risposta che gli sembra migliore. In Francia qualcuno mi ha scritto che, vedendo il mio spettacolo, ha trovato la fede».
- Alcuni momenti della pièce, due in particolare, hanno urtato la sensibilità di una parte dei cattolici…
«Una è quella in cui l’immagine di Gesù si lacera. Un inchiostro nero cola, come se le Scritture stesse – il mio testo ne è una derivazione diretta – si sciogliessero. Appare la scritta “Tu sei il mio pastore”, poi si insinua un “non”, quindi ritorna la frase affermativa. È la sospensione della fede, che io vivo come un credere nell’incredibile, come possibilità concessa alla libertà dell’uomo. Gesù stesso sulla croce disse: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Questa, per me, è una preghiera. Tutti noi viviamo fra la certezza e il dubbio».
- E poi c’è l’altra scena, quella del lancio di oggetti contro il ritratto…
«Nella versione originaria, sono bambini che lanciano granate-giocattolo. Per me è, ancora una volta, una preghiera: Dio, dove sei? A formularla, dei bambini, cioè gli innocenti. In tanti teatri, come al Parenti di Milano, questa scena è omessa per ragioni sceniche. Alcuni gruppi di destra, in Francia, si sono letteralmente inventati che si trattasse di escrementi. È partita una campagna su Internet, che è arrivata fino in Italia, senza che nessuno avesse visto lo spettacolo, con un sacco di gente che ci è cascata, anche in buona fede. È stato impressionante constatare come le smentite ufficiali cadessero nel vuoto».
- Come si spiega questa polemica?
«Con una lotta politica: la destra nazionalista religiosa francese, in vista delle elezioni, ha bisogno di mandare messaggi, anche in opposizione a una destra altrettanto nazionalista, ma laica».
- Lo spettacolo viene da una lunga tournée: quali reazioni ha suscitato altrove?
«È nato in Germania due anni fa e non ha mai scatenato reazioni del genere, nessuno lo ha tacciato di essere blasfemo. Al contrario, ha stimolato riflessioni teologiche, come è accaduto, sempre in Francia, con i domenicani o con l’arcivescovo di Rennes».
- In conclusione, lei ritiene che nulla di “Sul concetto di volto del figlio di Dio” contenga elementi offensivi per la sensibilità cattolica?
«Al contrario. A meno che non scandalizzi la realtà di un vecchio incontinente. Ma perché offendersi di fronte alla messa in scena della fragilità umana? Non fa parte del Creato? Che dire, allora, del libro di Giobbe? Non accetto di essere fatto passare per blasfemo, quando non lo sono affatto».
Paolo Perazzolo
Lo spettacolo teatrale “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci tocca una materia sensibilissima alla storia della teologia delle immagini: l’icona del volto di Cristo. E lo tocca in un modo del tutto particolare, unendo alla forza dell’immagine quella della parola pronunciata e scritta. In particolare, alla fine dello spettacolo, sul volto del Salvator Mundi di Antonello da Messina proiettato sullo sfondo della scena appare la frase “Tu non sei il mio pastore” in cui il “non“ appare e scompare. Immagine e nome. Nell’Oriente cristiano l’icona è sacra proprio in forza del nome che l’iconografo aggiunge alla sua opera, che solo così acquista un valore sacramentale: luogo, spazio, materia concreta, immagine in cui viene evocata in qualche modo la Presenza stessa di chi vi è rappresentato, in questo caso il Figlio di Dio. Nella piéce di Castellucci quel volto che “tutta la terra desidera” (come recita un’antifona dei vespri di avvento), il “più bello dei figli dell’uomo” (come canta il salmo 45), viene in qualche modo fatto bersaglio di un lancio di granate-giocattolo. L’arte contemporanea rivendica i suoi diritti di libertà di espressione. Ma l’arte, a mio avviso, non può rivoltarsi contro l’arte stessa. Un simbolo che viene dal passato deve venire innanzitutto compreso e semmai valorizzato.
Risalendo la filiera di immagini che l’arte cristiana ha prodotto dai primi secoli ad oggi possiamo vedere nel bel volto rinascimentale dipinto da Antonello da Messina nel 1475 quel prototipo misterioso che è il Volto dell’Uomo della Sindone: quei ciuffi di capelli richiamano il ricciolo a Y del sangue sulla fronte dell’uomo della Sindone, immagine che l’Enea, dopo 5 anni di ricerche, ha riconosciuto umanamente impossibile da riprodurre. Il Volto di Antonello da Messina, secondo il copione teatrale di Castellucci, viene poi preso di mira come un bersaglio. Se da un lato dobbiamo riconoscere che l’arte contemporanea ha fatto passi da gigante nella sua autonomia dai dogmi del passato, dobbiamo riconoscere però che non tutto è accettabile sotto il nome di “arte”. Il confronto con il passato ci può aiutare a capire in quale direzione dell’umana avventura espressiva possa condurci. Non possiamo inoltre ignorare come negli ultimi cinquant’anni, ci sia stata una grande, inaspettata riscoperta del valore dell’icona, soprattutto del Volto di Cristo: un valore che è diventato universale al di là delle varie fedi.
L’immagine del Salvator Mundi dipinta da Antonello da Messina è una tavola di legno dipinta a olio grande come lo schermo di un computer da 17 pollici girato in verticale. In teatro Castellucci proietta questa immagine in gigantografia, scegliendo un taglio orizzontale che evidenzia lo sguardo e il volto. La cultura slava, collegata alla spiritualità delle icone, ha un’espressione particolare per definire il volto: usa il termine lik che sottolinea come esso sia l’anima stessa di una persona. Il più grande iconografo russo, Andrej Rublev, a metà del Quattrocento, dipinge a Mosca il volto del suo Salvatore, lo “Spas”: un volto ricco di misericordia, un’immagine che penetra nel cuore così come il largo, sereno respiro di questo volto che Antonello dipinge in Italia negli stessi anni. Il taglio fotografico che Castellucci ci propone esclude però dal dipinto di Antonello le dita benedicenti di Gesù, dita bellissime rilevate mirabilmente dal pittore in un gioco metafisico di ombre e luci: sono mani che oltre a benedire hanno guarito i malati e accarezzato i bambini. Nella volto luminoso dipinto da Antonello c’è ancora di più: gli occhi scuri e fondi sono quelli dell’ebreo Gesù; e quelle labbra hanno pronunciato in aramaico parole che nessun uomo ha mai detto prima e dopo di Lui. Parole di amore e compassione per l’umanità sofferente nell’anima e nel corpo.
Per approfondire meglio il peso “culturale” dell’operazione artistica di Castellucci occorre anche riflettere sul fatto che prima dell’anno Mille il volto del figlio di Dio (non rappresentabile per ebrei e musulmani, due culture a cui dobbiamo sul tema “immagini” tutto il rispetto dovuto) non poteva neppure per la Chiesa cattolica essere rappresentato con i segni della sofferenza, proprio per non umiliarne la divinità. Ci vollero accese discussioni teologiche, un serie di concili ecumenici, la testimonianza di san Francesco d’Assisi, la predicazione francescana e domenicana e la nascita della devotio moderna per arrivare a capire come Cristo, vero uomo e vero Dio, patisca tutti i giorni per noi sulla croce e quindi sia così vicino all’uomo da poter essere rappresentato nella sua sofferenza. Così, prima timidamente e poi con più forza, gli artisti iniziarono a rappresentare i segni dei chiodi, delle ferite e del sangue; dalla cultura nordica arrivarono in Italia i crocifissi gotici dolorosi, nacquero le prime confraternite dei flagellanti e il teatro sacro rappresentò la Passione senza risparmio di sangue, in una logica eucaristica esaltata poi dal concilio di Trento.
Nel Cinquecento si arrivò al terribile Cristo Crocifisso della pala di Isenheim di Matthias Grünenwald, carne trapassata di spine acutissime e sfigurata dai colpi di flagello diffusi in tutto il corpo, ridotto a un sacco vuoto. Ma quando Grünewald scarnifica e ferisce il suo crocifisso tutto ciò è finalizzato all’esposizione di quell’immagine in un lebbrosario per suscitare compassione. Con un salto di cinque secoli Francis Bacon nei suoi Tre studi per una crocifissione del 1962 rappresenta Cristo come carne macellata. Mel Gibson nel film The Passion del 2004 scandalizza molti rappresentando con estrema crudezza e brutalità la passione e la morte di Cristo.
Infine, se un artista controcorrente come Andy Wharol nel 1987 utilizza a suo modo l’Ultima Cena di Leonardo, avvicinando l’immagine di Cristo alle varie icone pop dell’uomo contemporaneo, dobbiamo riconoscere che altre “indicibili” operazioni e dissacrazioni sono state fatte sul tema di Cristo e del crocifisso in questi ultimi anni, di certo più blasfeme di quella di Castellucci. Forse, a ben pensarci, Romeo Castellucci ci aiuta a capire, con quella sua icona del padre nudo col pannolone, come una volta dissacrata l’icona Cristo sia più facile cadere nella dissacrazione dell’uomo. Nella sua rappresentazione teatrale forse il vero Cristo è il padre, che si confronta faccia a faccia con i volto di cristo di Antonello. Il corpo di quel vecchio padre incontinente, nudo e cinto solo da un pannolone che ricorda il perizoma di Cristo in Croce è la vera icona dissacrata. Dimenticando Cristo prima o poi si finisce per dimenticare la dignità dell’uomo e si perde il senso umano del pudore e della pietà.
Alfredo Tradigo