«Noi siamo per l’accoglienza diffusa attraverso le cooperative, proprio per evitare assembramenti che creino problemi, ma non siamo stati interpellati». C’è amarezza nelle parole di don Davide Schiavon, direttore della Caritas di Treviso, che imputa le tensioni di Quinto, da una parte «all’incapacità gestionale dell’Italia», che persegue la via delle «scelte improvvisate». E, dall’altra, al «bombardamento mediatico, che esaspera i toni e soffia sul fuoco».
«Pur comprendendo lo sbigottimento, la rabbia delle persone che in dieci minuti si sono viste arrivare un centinaio di profughi, senza essere state prima avvisate», continua don Davide, «a me viene un riflessione in un’ottica più ampia: se con la violenza otteniamo il risultato che volevamo (a seguito delle proteste, i profughi sono stati trasferiti in una caserma dismessa, ndr), quale società stiamo costruendo? Tutto questo fa paura anche a me. Davanti ai nostri centri di accoglienza, quanta gente arriverà a protestare? E in che modo?».
Don Davide Schiavon, direttore della Caritas di Treviso. In copertina: le proteste dei residenti a Quinto di Treviso.
"Qui si fomenta proprio l'odio"
E poi c’è anche un senso di smarrimento, nelle parole del prete. «Stiamo lavorando sul territorio per un’accoglienza diffusa, abbiamo 40 persone accolte, coinvolgiamo la popolazione, 15 parrocchie, 15 Caritas, dialoghiamo anche con le amministrazioni leghiste. Ci sta che ci siano posizioni diverse, ma la violenza, la fomentazione, la responsabilità di persone a livello politiche ha nomi e cognomi, qui si fomenta proprio l’odio. Ottenuto il risultato dello spostamento, nell’arco di qualche mese, le cose saranno dimenticate, però la ferita rimanderà i suoi segnali dolorosi nelle prospettive future».
Eppure, nel Trevigiano da anni si lavora per l’integrazione. «Io faccio una lettura personale, anche se condivisa da altre persone. Il nostro territorio negli ultimi trent’anni ha vissuto un’esplosione economica tale che le persone erano convinte non avesse fine, perciò si poteva anche chiamare gente d fuori a lavorare. La crisi ha cambiato le cose. Le persone si trovano in una situazione inedita, dove certe fatiche non erano più conosciute. L’arrivo di altri accentua le difficoltà. Poi alcuni partiti hanno preso la linea di enfatizzare, di fomentare la caccia alle streghe, all’uomo nero portatore di malattie. Dispiace dirlo, ma nei giornali locali è un ritornello quotidiano. Quando proponi un sondaggio, che dice: “Hai paura o no di queste persone che arrivano senza controllo sanitario?” Hai già dato la risposta. Tutti questi messaggi hanno creato uno strato di subcultura che è veramente pericoloso. Si fa leva sulla pancia della gente più semplice, facilmente influenzabile. L’immagine che ho nella testa, rispetto alla situazione trevigiana, è che – fra locali e immigrati residenti – si è creata un’integrazione di superficie, che si reggeva su un benessere economico abbastanza generale, ma non su valori profondi».
- Che futuro si prospetta?
«Se non cambia la testa dei politici, dal basso possiamo fare solo quello che abbiamo fatto fino adesso, offrire strutture, cercare di diffondere la cultura dell’accoglienza, ma è necessario che vengano ripensate le cose in termini di equità e giustizia. Basterebbe l’Enciclica di papa Francesco. Capisco da vicende come quella di Quinto, dai messaggi contradditori che portano, perché Gesù nel vangelo se la prendeva con l’ipocrisia. Difendiamo il crocifisso di legno, ma non ci facciamo interpellare dai crocifissi di carne».