I cosiddetti social network sono ormai diffusi capillarmente. Facebook è diventato, per molti, la vetrina nella quale pubblicare, a ruota libera, stati d’animo, emozioni, informazioni su di sé. Qualche volta, però, si esagera nell’usare la propria pagina Facebook come luogo in cui sfogare malumori e frustrazioni. Le conseguenze possono essere molto spiacevoli.
Diverse le sentenze che hanno condannato per il reato di diffamazione utenti che avevano dato libero sfogo alla loro rabbia inserendo sulla propria pagina Facebook ingiurie e contumelie all’indirizzo delle persone prese di mira. È il caso di una ragazza che, licenziata dal parrucchiere per il quale aveva svolto un periodo di tirocinio, aveva utilizzato termini volgari per definire il proprietario del negozio e invitato gli altri utenti di Facebook a non andare in quel negozio.
Stessa sorte è toccata a un lavoratore dipendente che aveva usato il social network per mettere in dubbio la competenza e l’onestà dei superiori (Cassazione sentenza n. 13.604 del 2014). Numerosi sono anche i provvedimenti disciplinari applicati a studenti che avevano ingenuamente pensato di usare Facebook per dileggiare gli insegnanti o per mettere in vendita i compiti già fatti.
Facebook può essere usato anche come strumento per minacciare e spaventare. Di conseguenza, l’invio sistematico di messaggi minatori tramite il social network è stato considerato idoneo a integrare il reato di atti persecutori previsto dall’art. 612 bis del Codice penale, meglio conosciuto come “stalking”.
Una sentenza di segno contrario è quella con la quale la Cassazione ha assolto dall’accusa di molestie un tale che aveva inviato una serie di messaggi e immagini volgari a una ragazzina. Lo strumento utilizzato era una chat. I giudici hanno tenuto conto del fatto che l’invio dei messaggi in questo caso è possibile solo se il destinatario autorizza lo scambio di comunicazioni.
RECLUSIONE O MULTA
Secondo la giurisprudenza inserire nella propria bacheca di Facebook messaggi lesivi della reputazione altrui non solo integra il reato di diffamazione previsto dall’art. 595 del Codice penale, ma integra anche l’aggravante prevista dal terzo comma di quell’articolo che punisce più gravemente la diffamazione realizzata attraverso qualsiasi mezzo di pubblicità. La pena in questo caso è la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore a 516 euro.