«Abbiamo festeggiato 38 anni di matrimonio tra un terremoto e l’altro, il 26 maggio scorso. Possiamo dire che il nostro è un amore a prova di scossa». Giuliano Govoni non ha perso la vena di solare ironia che caratterizza gli emiliani. Incontrando sul palco di Bresso lui e sua moglie Cristina, genitori di due figli ormai grandi e nonni di una nipotina di 10 mesi, Benedetto XVI ha voluto stringersi idealmente a tutti coloro che stanno soffrendo a causa del sisma.
«Abitiamo a Cento, che è in provincia di Ferrara, ma in diocesi di Bologna», racconta Giuliano, 64 anni, ingegnere meccanico in pensione. «Quando la terra ha tremato la prima volta, il 20 maggio, il nostro paesino non ha subito tanti danni. Diversi, invece, gli effetti del secondo terremoto, quello di martedì 29 maggio. Il centro storico è stato evacuato, le chiese chiuse, molti edifici sono stati dichiarati inagibili. Casa nostra no, per fortuna. Ma noi dormiamo in roulotte: lo spavento (la terra continua a tremare) è stato ed è ancora troppo».
Giuliano e Cristina appartengono al Movimento Famiglie nuove che fa capo ai Focolarini. «Da tempo avevamo deciso di prendere parte al VII Incontro Mondiale delle Famiglie. Quando due o tre giorni fa ci hanno proposto di incontrare Benedetto XVI a nome di tutti i terremotati abbiamo accantonato ogni forma di timidezza e di ritrosia, pensando a chi sta peggio di noi perché piange un defunto o perché ha visto polverizzarsi ogni suo bene materiale. Siamo saliti sul palco per loro».
I coniugi Govoni vivono al terzo piano di una palazzina che conta nove alloggi. «A casa sono rimaste soltanto due persone anziane. Con tutti è fiorita una solidarietà mai vista prima. In giardino è nata una sorta di tendopoli spontanea: chi ha portato i teloni, chi i pali, chi le sedie, chi i fornelletti», conclude Giuliano: «Voglio ringraziare l’Italia che ci è stata e ci è vicino, dai Vigili del fuoco agli uomini della Protezione civile, dai volontari della Croce rossa agli ex alpini».
Alberto Chiara
Ernesta se l’è vista brutta. Quando ha sentito mancarle la terra sotto i piedi, ha cercato di raggiungere l’uscita dello stabilimento, ma è inciampata e si è ritrovata sotto le lamiere. “Poi ho sentito che lui mi tirava fuori e ho capito che era finita”.
Lui è suo marito, Luigi Olmi. Lavorano entrambi alla Vam di Ponte Motta. Adesso che la fabbrica è chiusa, dopo la scossa di martedì scorso, anche la sua famiglia vive in macchina, come la maggior parte di quelli che i media continuano a chiamare sfollati. Alcuni giornali hanno gonfiato a dismisura i numeri, di per sé drammatici.
Da 15.000, secondo le stime ufficiali, sarebbero già arrivati a
200.000. La verità è che non ci sono dati sicuri. I sindaci, proprio in
queste ore, stanno organizzando le tendopoli della Protezione civile.
I tecnici e i vigili del fuoco sono impegnati a valutare i danni delle
abitazioni ma chi può continua ad arrangiarsi. I terremotati dell’
Emilia sono tutti campeggiatori. Le tende, da Modena a Ferrara a
Bologna, ormai sono una merce introvabile. Le hanno piantate nei campi,
sui margini delle strade, nei giardini di casa propria e in quelli degli
amici. Chi non dorme in tenda dorme in macchina.
Come Ernesta, suo marito, il figlio Michele e i cognati. “E’
normale”, ci spiega. La sua casa, nella campagna tra Camposanto e San
Felice sul Panaro, di fuori sembra a posto ma dentro è piena di crepe.
L’auto è più sicura. Per il pranzo e la cena c’è il gazebo. “Siamo
fortunati, c’è chi sta peggio”. Tra Mirandola e Cavezzo è tutta una
tenda. C’è chi in casa non può proprio entrare: non c’è casale o fienile
nella campagna modenese che non sia stato lesionato. La Coldiretti
parla di oltre 500 milioni di danni. Ma nelle tendopoli non ci vanno.
Hanno portato i frigoriferi all’aperto, congelano i piselli e le
zucchine dell’orto, dormono nelle serre. Ma non si spostano.
Simonetta Pagnotti