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domenica 13 ottobre 2024
 
 

Fecondità, compito spirituale

22/07/2011  È la fecondità della comunione coniugale che colloca la famiglia e il dono dei figli quale base autentica della comunità ecclesiale.

La trama in cui noi, genitori e nonni, prendiamo in mano la Lettera alle famiglie è quella della fecondità, che ci sembra una profonda ed efficace chiave interpretativa del familiare. Attraverso l’analisi particolare di un caso cercheremo di mostrare come la fecondità o riesce a incidere nella prassi familiare concreta oppure si tramuta nel suo mostruoso contrario: ovvero l’infecondità e lo stallo tra le generazioni.

Dodici anni e un’agitazione più grande di lui: la scuola (con un’impressionante uniformità dalla scuola materna, alle elementari, fino alla media) dice di lui che è ingestibile e non è in grado di controllarsi. L’invio alla psicologa pare non sortire grandi effetti: Luca è sempre più agitato, pur essendo molto intelligente e, a suo modo, profondo. Dietro di lui, in famiglia, una sorella deliziosa e tranquilla, poi ancora un fratellino «bello come il sole, in tutti i sensi», dice la madre. Il padre è accusato di essere assente, anche per i suoi molteplici impegni nella veste professionale di consulente finanziario, ma «anche quando è a casa si fionda sul suo inseparabile Pc e non c’è per nessuno».

La madre è arcistufa di fare la casalinga. Nel frattempo, sogna un collegio dove sia possibile «raddrizzargli » il figlio: si sente in colpa e in imbarazzo tutte le volte in cui la scuola la chiama a rapporto, vorrebbe potersi dedicare ai suoi veri interessi, come per esempio l’arte, ma con un figlio così non può, perché non fa che «bruciare» tutte le baby-sitter interpellate per accudirlo. Non sa proprio spiegarsi come mai da loro due «sia uscito un figlio così assatanato » (parole sue), e lei ormai non ce la fa più. Vuole mollare la presa. Sì, loro sono credenti: sposati in chiesa, Messa alla domenica per tutta la famiglia, numerosi e vani i tentativi compiuti per far frequentare al figlio l’oratorio parrocchiale.

Il nostro case study ci mostra che la famiglia oggi vive uno scollamento profondo tra la fede e la realtà quotidiana. Ciò almeno per due motivi di fondo, che tentiamo di esaminare un po’ sommariamente.

1) Il primo: la famiglia oggi è abbandonata a sé stessa (e magari colpevolizzata anche dagli operatori, come insegnanti, educatori, servizi sociali) perché è entrato nelle sue carni un principio di divisione dato per scontato e assorbito dalla temperie culturale: «Ciascuno badi a sé stesso»; esemplare appare il comportamento del padre di Luca: “io lavoro, sono impegnatissimo, guadagno, mantengo la famiglia, che cosa si vuole di più da me?”. La madre appare prigioniera del suo rapporto con Luca: urla e minacce non riescono a contenerlo, mentre lei sognerebbe una vita sua (l’arte) che forse gli altri due figli le permetterebbero; e così diventa “espulsiva” riguardo al figlio. Luca è in mezzo a questa tempesta emotiva (la catalizza, per così dire) e non sa farvi fronte: né con l’aiuto di un padre che pare non vederlo, né con l’aiuto di una madre che sembra orientata solo a domarlo per sentirsi “libera”. In più, quando aveva sei anni (e già una sfolgorante carriera da esagitato alle spalle) gli nasce la sorellina miracolosamente tranquilla e poi un fratellino-sole che pare avere il compito di consolare la madre. Nessuno gli ha dato tempo, si è seduto con lui, nessuno ha curato la relazione come “bene comune”.

2) Il secondo motivo epocale è la riduzione della fede a pratica religiosa che non incide sulla pratica della vita. Di questo siamo responsabili un po’ tutti: c’è stata un’epoca (almeno due generazioni fa) in cui la pratica religiosa era un coronamento di come era di fatto vissuta la fede nella realtà quotidiana; poi ci siamo lasciati incantare dalle sirene del razionalismo e dell’utilitarismo che sono confluite nell’individualismo post-moderno, dove il “bene” del singolo (leggi: il suo proprio benessere emotivo) diviene il criterio ultimo dell’agire. E così siamo precipitati in un neomanicheismo in cui i princìpi del bene e del male, del corpo e dello spirito, del privato e del pubblico eccetera sono opposti, inconciliabili; dove lo sbilanciamento è tutto a favore del bene- corpo-privato non più accessibili a un ideale maggiore, a un bene comune, cui sembra ormai “non utile” credere. Citiamo dalla lucida analisi di Simona Argentieri, psicanalista: «Più di mezzo secolo fa, ne Il disagio della civiltà, Freud scriveva che la convivenza civile imponeva dei “sacrifici pulsionali” che determinavano lo “scontento” dell’uomo moderno. Oggi, a dire il vero, nessuno più si fa carico di limitare gli impulsi sessuali e aggressivi dei singoli, ma non per questo stiamo meglio; anzi, tutti sembrano rabbiosi, delusi, carichi di rancore e perpetuamente scontenti».
Un esempio raccolto fra mille: una famiglia in cui il fare sesso della figlia a 15 anni è permesso (e invidiato) in camera da letto con il moroso appena maggiorenne, non solo viene tollerato, ma in un certo senso esaltato (“è così che si fa!”), anche se poi, dieci anni dopo, si grida allo scandalo e alla vergogna perché l’ex-quindicenne vuole lasciare il moroso, il quale non le dice più niente. Famiglie cattoliche, magari con un’abitudinaria pratica religiosa; ma la fede che permea la vita, la informa, le dà senso e luce dov’è? In questo contesto il nostro giovanissimo Luca che vorrebbe imparare l’arte di non accettare i limiti e i dati di realtà, il piccolo apprendista inserito nella cultura del “fai da te”, ci fa molta tenerezza.

Con questa realtà scottante tra le mani, ci accostiamo a un documento “datato” (1994) eppure nuovissimo e sconvolgente: la Lettera alle famiglie di Giovanni Paolo II, la quale afferma senza mezze misure che «la famiglia è via della Chiesa» (2) e che «il modello originario della famiglia va ricercato in Dio stesso, nel Mistero Trinitario della sua vita» (6). Altezze vertiginose! Ma come entrano (possono entrare) nella famiglia di Luca? Come questa fede può trasformare dal di dentro la sua famiglia, se non c’è chi la evangelizza mediante quelle considerazioni profondamente umane (e perciò di fede) che la lettera ha il coraggio di mostrare? Bypassate quelle, la famiglia si riduce a una forma utilitaristica e provvisoria del vivere, che niente ha a che fare con l’essere veramente famiglia.

Lasciamoci condurre: la Lettera parte dalla dualità originaria maschiofemmina cioè dalla loro pari dignità. Ne consegue che «il loro proprio modo di esistere e di vivere insieme è la comunione» (7).

È proprio ciò che vogliono i genitori di Luca, quando si sono decisi per l’alleanza sponsale, all’origine della loro vita matrimoniale. Forse nessuno ha mostrato loro che comunione è essenzialmente sporgersi verso il bene dell’altro; la comunione che loro hanno sognato e in qualche modo, forse senza nemmeno saperlo, ancora sognano, è proprio il sogno di Dio su di loro, niente di meno e niente di più; la comunione è rottura dell’isolamento, incantamento per la bellezza dell’altro, parola che unisce e rispetta; non è il sindacale “faccio un pezzo io e fai un pezzo tu”, ciascuno divenuto controllore di quello che fa l’altro per non “smenarci”. Comunione è realizzare per intero la propria umanità: «L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (11). Più propriamente si può parlare qui di fecondità, fecondità comunionale, senza la quale non è possibile nessun’altra fecondità.

La fede svela la coppia a sé stessa perché rende possibile il sogno. Infatti «nella benedizione nuziale che così si esprime: “Effondi su di loro la grazia dello Spirito Santo” scaturisce la forza interiore della coppia e della famiglia » (4). È a dire: nel suo desiderio- progetto-sogno di comunione la coppia non ne ricava doverismi o, peggio ancora, inarrivabili “dover essere”; la coppia è rifornita gratuitamente dall’effusione dello Spirito. Lì i due sposi hanno la loro fonte segreta e lì possono tornare a rifornirsi tutte le volte che dimenticano di essere capaci di esistere «in comunione».

Negli affanni e nelle delusioni, il padre di Luca ha dimenticato il sogno della comunione con la moglie: si è ritirato nel suo lavoro, nel guadagno, negli impegni e non la raggiunge più, mettendole a disposizione «il dono sincero di sé», un sé che vale ben più di ogni assegno bancario. Cosa può essere una Messa alla domenica (se non un impegno in più) se egli non torna al desiderio di comunione con lei, con il dividere con lei la sua vita? La madre di Luca annega nei giudizi sulle assenze di lui il suo sogno di comunione, non si sporge verso di lui lanciandogli ogni volta di nuovo il suo desiderio di “essere con”, aspettandolo con un sorriso. I due possono ancora oggi pensare che Dio tifa per la loro comunione, offrendone i mezzi in maniera sovrabbondante. Ma qui, dice Giovanni Paolo II «è urgente una grande preghiera delle famiglie che cresca e attraversi il mondo intero» (5) e ciò spalanca l’orizzonte, rompe i nostri ben assicurati appartamenti: c’è da qualche parte sulla terra una famiglia che prega perché i genitori di Luca riprendano su di sé il sogno della loro comunione.

Di nuovo siamo qui a tentare di aprire lo scrigno prezioso del termine fecondità: che non vuol dire propriamente produrre, far essere, men che meno fabbricare, poniamo, un figlio; ma essere in altro. Non c’è nessuno che possa essere fecondo chiudendosi in sé stesso, ritirando il sogno della comunione; nemmeno il famoso chicco di grano è fecondo se non si apre, se non si spacca.

della famiglia di Luca e riguarda la loro effettiva genitorialità. Dice di nuovo la nostra lettera: «La maternità implica necessariamente la paternità e la paternità implica necessariamente la maternità». E ancora: «La vita è un compito affidato ad ambedue: al marito e alla moglie. Nella loro vita la paternità e la maternità costituiscono una “novità” e una ricchezza tanto sublimi da non potervisi accostare che “in ginocchio”»(7).

Simili considerazioni potrebbero in linea teorica essere sottoscritte da ciascun esperto che si occupi di genitorialità; che cosa c’entra la fede? Sul piano umano ciascuno dei due è tenuto a considerare l’effettivo esercizio della genitorialità dell’altro: nessun genitore può concedersi il lusso (o il lutto, secondo i punti di vista) di licenziare l’altro come inadatto, come genitore che non è all’altezza del compito, perché l’esperienza ci insegna che la rete con cui ciascuno pesca l’esercizio della paternità o della maternità del coniuge è in qualche modo già pre-costituita, e spesso proviene dal proprio quadro mentale su come deve comportarsi l’altro (il che – appunto – è in contrapposizione alla comunione di cui si parlava sopra). Luca, nella sua famiglia, non può non vedere che la modalità con cui il padre fa il “padre” cade sotto l’ansia e la disistima della madre e che la modalità con cui la madre fa la “madre” è criticata e svalutata dal padre. Già qui il terreno sotto i suoi piedi è eroso e si può star certi che questa è una delle determinanti nella sua agitazione.

Ma che c’entra la fede? La fede consiste nello scoprire che generare un figlio non è un affare privato, né un incidente di percorso, nemmeno una “produzione in proprio”. Se generare è un compito, se «l’unità dei due li apre a una nuova vita, a una nuova persona, non soltanto “carne della loro carne e ossa delle loro ossa”,ma immagine e somiglianza di Dio, cioè persona » (7), allora i due scoprono un nuovo orizzonte mozzafiato: proprio nel loro essere genitori, Dio li rivela a loro stessi come rappresentanti della sua paternità-maternità, da cui hanno origine tutti i viventi. La fede non solo li rende consapevoli di non essere “creatori e padroni” di Luca, ma di essere chiamati a servire in lui la Vita.

E servirla insieme, non in contrapposizione: allora la fede diventa ferialità buona e vera protezione per Luca che non è più lasciato a sé stesso. Infatti, come diciamo in un nostro testo, la fede «li protegge dalle nostre scorciatoie e dai nostri imperialismi, ce li pone davanti non come oggetti da riempire, creature da addestrare, soggetti da plasmare a nostro piacimento. E il punto di vista di Gesù sui bambini li protegge e ce li consegna, consegnandoci in loro Sé stesso. La nostra fede è la più grande salvaguardia dei nostri bambini; proprio nella fede essi possono trovare il rispetto di cui hanno bisogno per crescere».

Scaviamo di nuovo nel termine fecondità in riferimento al figlio: poiché molto/troppo è dato per scontato nella feriale relazione genitore figlio, al punto che diviene quasi scontato l’arbitrio, cioè il volere il figlio “a propria immagine e somiglianza”, cioè secondo i propri desideri e progetti. La Lettera alle famiglie ci mette in guardia in modo radicale da questo pericolo, richiamando un principio che è il principio proprio della fecondità: «I genitori, davanti a un nuovo essere umano, hanno o dovrebbero avere piena consapevolezza del fatto che Dio vuole quest’uomo “per sé stesso” (9). Dio stesso tratta i nostri figli ciascuno per sé stesso; «essere uomo è la sua fondamentale vocazione: essere uomo a misura del dono ricevuto» (9): uno stupendo rispetto che è iscritto nel codice della fecondità non è generare un figlio per un qualche motivo estrinseco a Lui (perfino, ci diceva una giovane: «I miei mi hanno voluto come banca del sangue per mio fratello gravemente malato»); e quanti aspiranti genitori vogliono un figlio a tutti i costi, con tutte le tecniche possibili, perché – ci diceva una madre (inconsapevolmente) spudorata – mi manca un figlio per sentirmi pienamente realizzata.

Il principio della fecondità batte ben altre strade: una coppia diviene feconda nella misura in cui il figlio è ricevuto come dono, cioè gratuitamente lasciato essere. Ogni altra fecondità (leggi: il bisogno del figlio per sé, anche in termini adottivi) assomiglia tanto... alla pecora Dolly, a un delirio di clonazione per garantirci una sorta di continuità. Sana è, invece, la famiglia in cui un figlio adulto può dire, riguardo alla sua storia nella famiglia in cui è nato, «mi hanno voluto per me stesso», tant’è che ora mi hanno riempito lo zaino e mi lasciano andare, anche se le mie scelte vocazionali non erano certo nei loro progetti. Ecco la fecondità: lasciar essere l’altro come altro da sé.

Ma perché un figlio va voluto per sé stesso? La nostra Lettera ci viene in aiuto: «Dio vuole elargire all’uomo la partecipazione alla sua stessa vita divina; la genealogia della persona è pertanto unita innanzitutto con l’eternità di Dio e solo dopo con la maternità e la paternità che si attuano nel tempo » (9): è a dire, il figlio non è un prodotto casalingo, è stato pensato, voluto e amato per un destino che mai nessun genitore umano potrebbe consegnare a un figlio, per quanto amato: diventare divino, far parte della famiglia di Dio. La genealogia di nostro figlio risale a Dio (altro che genogramma!) è scaturita da lì, dal cielo: e come potrei osare io genitore di pensarlo “fatto da me” e quindi manipolabile a mio piacimento? La fecondità, in ultima analisi, risale a Dio.

Ma c’è di più: «La paternità e la maternità rappresentano un compito di natura non semplicemente fisica, ma spirituale: attraverso di esse, infatti, passa la genealogia della persona che ha il suo eterno inizio in Dio e che a Lui deve condurre» (10).

La materia che i coniugi forniscono alla vita non è infatti una materia puramente fisica (che cosa c’è di solo fisico in un embrione umano che contiene in sé la programmazione del proprio sviluppo?) ma spirituale, è un’azione che informa il corpo, il quale diviene corpo spiritualizzato: «Il corpo non può mai essere ridotto a puramateria, è un corpo spiritualizzato, o uno spirito corporeizzato» (19). Il nostro bambino, venuto da noi, ma nel contempo inedita e irripetibile unione dei cromosomi paterni e materni è in sé stesso un dono: «Il neonato si dona ai genitori per il fatto stesso di venire all’esistenza... egli è anzitutto “la gloria di Dio”» (11), ci mostra un nuovo carattere della fecondità: la non manipolabilità. Il compito spirituale della crescita dei figli inizia qui: in famiglia il figlio impara sulla sua pelle la “civiltà dell’amore”.

Ogni uomo si realizza attraverso il dono sincero di sé, prima ricevuto e poi dato: la fecondità può nascere là dove si è esperito, almeno in parte, di aver ricevuto gratuitamente, per il solo fatto di esserci (pensiamo ai miliardi di contatti e di baci che un piccolo riceve!) e che poi si iscrive nella linea del “dare a sua volta”. In altre parole, la fecondità si dà soltanto nella linea delle generazioni: non può essere che un umano si inventi ex novo la fecondità, anche se qui non si può insinuare nessuna terroristica equazione: tu puoi dare solo quanto hai ricevuto.

Anzi, la fecondità, dopo e solo dopo aver visto quei pani e quei pesci che gratuitamente si è ricevuto, può moltiplicarli. È questa, in fondo, la ragione della famiglia: «La famiglia è infatti – più di ogni altra realtà umana – l’ambiente nel quale l’uomo può esistere per sé stesso mediante il dono sincero di sé» (11).

La fecondità proviene dal legame tra generazioni, dunque, ma non solo: Giovanni Paolo II si tiene ben distante dal mito che la famiglia basti a sé stessa: «I genitori vengono educati attraverso altri genitori», e questa è «forma preziosa di apostolato delle famiglie fra di loro» (16). La fecondità cioè spalanca la famiglia, mette in atto un processo che costringe a uscire dal proprio appartamento e in ciò diviene Chiesa domestica. Proprio la natura della fecondità ci ha portato fuori dalle quattro mura in cui spesso rinchiudiamo il nostro “fai da te” privatistico: «Creare uno spazio comunitario per l’affermazione di quest’uomo in concreto» (19); la famiglia cioè è Chiesa domestica in tanto in quanto fa Chiesa, cioè lavora per la comunione, secondo il suo proprio metodo familiare: «Paolo sintetizza il tema della vita familiare con la parola grande mistero poiché in esso si esprime l’amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa» (19). Allora comincia a diventare chiaro il significato dell’affermazione di Giovanni Paolo II, condivisa da tutto il Magistero (almeno in linea teorica!) su cosa comporti l’affermazione che la famiglia sia via della Chiesa: «Se prima via della Chiesa è la famiglia, occorre aggiungere che anche la civiltà dell’amore è via della Chiesa» (13).

Nello svolgimento di questa riflessione, siamo dunque venuti identificando questa civiltà dell’amore con il termine di “fecondità familiare” che ora si prospetta come “fecondità ecclesiale”. I caratteri della fecondità che siamo venuti via via elaborando così si possono esprimere:

  • fecondità come essere in comunione;
  • fecondità come essere in altro;
  • fecondità come lasciar essere l’altro come altro da sé;
  • fecondità come ricevere da Dio il figlio per sé stesso;
  • fecondità come compito spirituale;
  • fecondità come legame tra generazioni;
  • fecondità come collegamento in forza della civiltà dell’amore. Saremo infatti giudicati sull’amore.

Scoprire e vivere in quale senso tutto questo porti alla Chiesa è sicuramente un compito urgente sia delle famiglie sia del Ministero ordinato; già nel 1994 un profeta polacco ce ne ha aperto ampiamente la via.

 
 
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