La trama in cui noi, genitori e nonni, prendiamo
in mano la Lettera alle famiglie è quella della
fecondità, che ci sembra una profonda ed
efficace chiave interpretativa del familiare. Attraverso
l’analisi particolare di un caso cercheremo di mostrare
come la fecondità o riesce a incidere nella
prassi familiare concreta oppure si tramuta nel suo
mostruoso contrario: ovvero l’infecondità e lo stallo
tra le generazioni.
Dodici anni e un’agitazione più grande di lui: la
scuola (con un’impressionante uniformità dalla
scuola materna, alle elementari, fino alla media) dice
di lui che è ingestibile e non è in grado di controllarsi.
L’invio alla psicologa pare non sortire grandi
effetti: Luca è sempre più agitato, pur essendo molto
intelligente e, a suo modo, profondo. Dietro di
lui, in famiglia, una sorella deliziosa e tranquilla,
poi ancora un fratellino «bello come il sole, in tutti i
sensi», dice la madre. Il padre è accusato di essere assente,
anche per i suoi molteplici impegni nella veste
professionale di consulente finanziario, ma «anche
quando è a casa si fionda sul suo inseparabile Pc
e non c’è per nessuno».
La madre è arcistufa di fare la casalinga. Nel frattempo, sogna un collegio dove sia possibile «raddrizzargli » il figlio: si sente in colpa e in imbarazzo tutte le volte in cui la scuola la chiama a rapporto, vorrebbe potersi dedicare ai suoi veri interessi, come per esempio l’arte, ma con un figlio così non può, perché non fa che «bruciare» tutte le baby-sitter interpellate per accudirlo. Non sa proprio spiegarsi come mai da loro due «sia uscito un figlio così assatanato » (parole sue), e lei ormai non ce la fa più. Vuole mollare la presa. Sì, loro sono credenti: sposati in chiesa, Messa alla domenica per tutta la famiglia, numerosi e vani i tentativi compiuti per far frequentare al figlio l’oratorio parrocchiale.
Il nostro case study ci mostra che la
famiglia oggi vive uno scollamento
profondo tra la fede e la realtà quotidiana.
Ciò almeno per due motivi di
fondo, che tentiamo di esaminare un
po’ sommariamente.
1) Il primo: la famiglia oggi è abbandonata
a sé stessa (e magari colpevolizzata
anche dagli operatori, come
insegnanti, educatori, servizi sociali)
perché è entrato nelle sue carni un
principio di divisione dato per scontato
e assorbito dalla temperie culturale:
«Ciascuno badi a sé stesso»; esemplare
appare il comportamento del
padre di Luca: “io lavoro, sono impegnatissimo,
guadagno, mantengo la
famiglia, che cosa si vuole di più da
me?”. La madre appare prigioniera
del suo rapporto con Luca: urla e minacce
non riescono a contenerlo,
mentre lei sognerebbe una vita sua
(l’arte) che forse gli altri due figli le
permetterebbero; e così diventa
“espulsiva” riguardo al figlio.
Luca è in mezzo a questa tempesta
emotiva (la catalizza, per così dire) e
non sa farvi fronte: né con l’aiuto di
un padre che pare non vederlo, né
con l’aiuto di una madre che sembra
orientata solo a domarlo per sentirsi
“libera”. In più, quando aveva sei anni
(e già una sfolgorante carriera da esagitato
alle spalle) gli nasce la sorellina
miracolosamente tranquilla e poi un
fratellino-sole che pare avere il compito
di consolare la madre. Nessuno gli
ha dato tempo, si è seduto con lui,
nessuno ha curato la relazione come
“bene comune”.
2) Il secondo motivo epocale è la riduzione della fede a pratica religiosa che non incide sulla pratica della vita. Di questo siamo responsabili un po’ tutti: c’è stata un’epoca (almeno due generazioni fa) in cui la pratica religiosa era un coronamento di come era di fatto vissuta la fede nella realtà quotidiana; poi ci siamo lasciati incantare dalle sirene del razionalismo e dell’utilitarismo che sono confluite nell’individualismo post-moderno, dove il “bene” del singolo (leggi: il suo proprio benessere emotivo) diviene il criterio ultimo dell’agire. E così siamo precipitati in un neomanicheismo in cui i princìpi del bene e del male, del corpo e dello spirito, del privato e del pubblico eccetera sono opposti, inconciliabili; dove lo sbilanciamento è tutto a favore del bene- corpo-privato non più accessibili a un ideale maggiore, a un bene comune, cui sembra ormai “non utile” credere. Citiamo dalla lucida analisi di Simona Argentieri, psicanalista: «Più di mezzo secolo fa, ne Il disagio della civiltà, Freud scriveva che la convivenza civile imponeva dei “sacrifici pulsionali” che determinavano lo “scontento” dell’uomo moderno. Oggi, a dire il vero, nessuno più si fa carico di limitare gli impulsi sessuali e aggressivi dei singoli, ma non per questo stiamo meglio; anzi, tutti sembrano rabbiosi, delusi, carichi di rancore e perpetuamente scontenti».
Un esempio raccolto fra mille: una
famiglia in cui il fare sesso della figlia
a 15 anni è permesso (e invidiato) in
camera da letto con il moroso appena
maggiorenne, non solo viene tollerato,
ma in un certo senso esaltato (“è
così che si fa!”), anche se poi, dieci anni
dopo, si grida allo scandalo e alla
vergogna perché l’ex-quindicenne
vuole lasciare il moroso, il quale non
le dice più niente. Famiglie cattoliche,
magari con un’abitudinaria pratica
religiosa; ma la fede che permea la vita, la informa, le dà senso e luce
dov’è? In questo contesto il nostro giovanissimo
Luca che vorrebbe imparare
l’arte di non accettare i limiti e i dati
di realtà, il piccolo apprendista inserito
nella cultura del “fai da te”, ci fa
molta tenerezza.
Con questa realtà scottante tra le
mani, ci accostiamo a un documento
“datato” (1994) eppure nuovissimo e
sconvolgente: la Lettera alle famiglie di
Giovanni Paolo II, la quale afferma
senza mezze misure che «la famiglia è
via della Chiesa» (2) e che «il modello
originario della famiglia va ricercato
in Dio stesso, nel Mistero Trinitario
della sua vita» (6). Altezze vertiginose!
Ma come entrano (possono entrare)
nella famiglia di Luca? Come questa
fede può trasformare dal di dentro
la sua famiglia, se non c’è chi la
evangelizza mediante quelle considerazioni
profondamente umane (e perciò
di fede) che la lettera ha il coraggio
di mostrare? Bypassate quelle, la
famiglia si riduce a una forma utilitaristica
e provvisoria del vivere, che niente
ha a che fare con l’essere veramente
famiglia.
Lasciamoci condurre: la Lettera parte
dalla dualità originaria maschiofemmina
cioè dalla loro pari dignità.
Ne consegue che «il loro proprio modo
di esistere e di vivere insieme è la
comunione» (7).
È proprio ciò che vogliono i genitori di Luca, quando si sono decisi per l’alleanza sponsale, all’origine della loro vita matrimoniale. Forse nessuno ha mostrato loro che comunione è essenzialmente sporgersi verso il bene dell’altro; la comunione che loro hanno sognato e in qualche modo, forse senza nemmeno saperlo, ancora sognano, è proprio il sogno di Dio su di loro, niente di meno e niente di più; la comunione è rottura dell’isolamento, incantamento per la bellezza dell’altro, parola che unisce e rispetta; non è il sindacale “faccio un pezzo io e fai un pezzo tu”, ciascuno divenuto controllore di quello che fa l’altro per non “smenarci”. Comunione è realizzare per intero la propria umanità: «L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (11). Più propriamente si può parlare qui di fecondità, fecondità comunionale, senza la quale non è possibile nessun’altra fecondità.
La fede svela la coppia a sé stessa perché rende possibile il sogno. Infatti «nella benedizione nuziale che così si esprime: “Effondi su di loro la grazia dello Spirito Santo” scaturisce la forza interiore della coppia e della famiglia » (4). È a dire: nel suo desiderio- progetto-sogno di comunione la coppia non ne ricava doverismi o, peggio ancora, inarrivabili “dover essere”; la coppia è rifornita gratuitamente dall’effusione dello Spirito. Lì i due sposi hanno la loro fonte segreta e lì possono tornare a rifornirsi tutte le volte che dimenticano di essere capaci di esistere «in comunione».
Negli affanni e nelle delusioni, il padre di Luca ha dimenticato il sogno della comunione con la moglie: si è ritirato nel suo lavoro, nel guadagno, negli impegni e non la raggiunge più, mettendole a disposizione «il dono sincero di sé», un sé che vale ben più di ogni assegno bancario. Cosa può essere una Messa alla domenica (se non un impegno in più) se egli non torna al desiderio di comunione con lei, con il dividere con lei la sua vita? La madre di Luca annega nei giudizi sulle assenze di lui il suo sogno di comunione, non si sporge verso di lui lanciandogli ogni volta di nuovo il suo desiderio di “essere con”, aspettandolo con un sorriso. I due possono ancora oggi pensare che Dio tifa per la loro comunione, offrendone i mezzi in maniera sovrabbondante. Ma qui, dice Giovanni Paolo II «è urgente una grande preghiera delle famiglie che cresca e attraversi il mondo intero» (5) e ciò spalanca l’orizzonte, rompe i nostri ben assicurati appartamenti: c’è da qualche parte sulla terra una famiglia che prega perché i genitori di Luca riprendano su di sé il sogno della loro comunione.
Di nuovo siamo qui a tentare di aprire lo scrigno prezioso del termine fecondità: che non vuol dire propriamente produrre, far essere, men che meno fabbricare, poniamo, un figlio; ma essere in altro. Non c’è nessuno che possa essere fecondo chiudendosi in sé stesso, ritirando il sogno della comunione; nemmeno il famoso chicco di grano è fecondo se non si apre, se non si spacca.
della famiglia di Luca e riguarda la loro
effettiva genitorialità. Dice di nuovo
la nostra lettera: «La maternità implica
necessariamente la paternità e
la paternità implica necessariamente
la maternità». E ancora: «La vita è un
compito affidato ad ambedue: al marito
e alla moglie. Nella loro vita la paternità
e la maternità costituiscono
una “novità” e una ricchezza tanto sublimi
da non potervisi accostare che
“in ginocchio”»(7).
Simili considerazioni potrebbero in linea teorica essere sottoscritte da ciascun esperto che si occupi di genitorialità; che cosa c’entra la fede? Sul piano umano ciascuno dei due è tenuto a considerare l’effettivo esercizio della genitorialità dell’altro: nessun genitore può concedersi il lusso (o il lutto, secondo i punti di vista) di licenziare l’altro come inadatto, come genitore che non è all’altezza del compito, perché l’esperienza ci insegna che la rete con cui ciascuno pesca l’esercizio della paternità o della maternità del coniuge è in qualche modo già pre-costituita, e spesso proviene dal proprio quadro mentale su come deve comportarsi l’altro (il che – appunto – è in contrapposizione alla comunione di cui si parlava sopra). Luca, nella sua famiglia, non può non vedere che la modalità con cui il padre fa il “padre” cade sotto l’ansia e la disistima della madre e che la modalità con cui la madre fa la “madre” è criticata e svalutata dal padre. Già qui il terreno sotto i suoi piedi è eroso e si può star certi che questa è una delle determinanti nella sua agitazione.
Ma che c’entra la fede? La fede consiste
nello scoprire che generare un figlio
non è un affare privato, né un incidente
di percorso, nemmeno una “produzione in proprio”. Se generare
è un compito, se «l’unità dei due li
apre a una nuova vita, a una nuova
persona, non soltanto “carne della loro
carne e ossa delle loro ossa”,ma immagine
e somiglianza di Dio, cioè persona
» (7), allora i due scoprono un
nuovo orizzonte mozzafiato: proprio
nel loro essere genitori, Dio li rivela a
loro stessi come rappresentanti della
sua paternità-maternità, da cui hanno
origine tutti i viventi. La fede non solo
li rende consapevoli di non essere
“creatori e padroni” di Luca, ma di essere
chiamati a servire in lui la Vita.
E servirla insieme, non in contrapposizione: allora la fede diventa ferialità buona e vera protezione per Luca che non è più lasciato a sé stesso. Infatti, come diciamo in un nostro testo, la fede «li protegge dalle nostre scorciatoie e dai nostri imperialismi, ce li pone davanti non come oggetti da riempire, creature da addestrare, soggetti da plasmare a nostro piacimento. E il punto di vista di Gesù sui bambini li protegge e ce li consegna, consegnandoci in loro Sé stesso. La nostra fede è la più grande salvaguardia dei nostri bambini; proprio nella fede essi possono trovare il rispetto di cui hanno bisogno per crescere».
Scaviamo di nuovo nel termine fecondità
in riferimento al figlio: poiché
molto/troppo è dato per scontato
nella feriale relazione genitore figlio,
al punto che diviene quasi scontato
l’arbitrio, cioè il volere il figlio “a
propria immagine e somiglianza”,
cioè secondo i propri desideri e progetti.
La Lettera alle famiglie ci mette in
guardia in modo radicale da questo
pericolo, richiamando un principio
che è il principio proprio della fecondità:
«I genitori, davanti a un nuovo
essere umano, hanno o dovrebbero
avere piena consapevolezza del fatto
che Dio vuole quest’uomo “per sé stesso”
(9). Dio stesso tratta i nostri figli
ciascuno per sé stesso; «essere uomo è
la sua fondamentale vocazione: essere
uomo a misura del dono ricevuto»
(9): uno stupendo rispetto che è iscritto
nel codice della fecondità non è generare
un figlio per un qualche motivo
estrinseco a Lui (perfino, ci diceva
una giovane: «I miei mi hanno voluto
come banca del sangue per mio fratello
gravemente malato»); e quanti aspiranti
genitori vogliono un figlio a tutti
i costi, con tutte le tecniche possibili,
perché – ci diceva una madre (inconsapevolmente)
spudorata – mi
manca un figlio per sentirmi pienamente
realizzata.
Il principio della fecondità batte
ben altre strade: una coppia diviene
feconda nella misura in cui il figlio è
ricevuto come dono, cioè gratuitamente
lasciato essere. Ogni altra fecondità
(leggi: il bisogno del figlio
per sé, anche in termini adottivi) assomiglia
tanto... alla pecora Dolly, a un
delirio di clonazione per garantirci
una sorta di continuità. Sana è, invece,
la famiglia in cui un figlio adulto
può dire, riguardo alla sua storia nella
famiglia in cui è nato, «mi hanno
voluto per me stesso», tant’è che ora
mi hanno riempito lo zaino e mi lasciano
andare, anche se le mie scelte
vocazionali non erano certo nei loro
progetti. Ecco la fecondità: lasciar essere
l’altro come altro da sé.
Ma perché un figlio va voluto per sé stesso? La nostra Lettera ci viene in aiuto: «Dio vuole elargire all’uomo la partecipazione alla sua stessa vita divina; la genealogia della persona è pertanto unita innanzitutto con l’eternità di Dio e solo dopo con la maternità e la paternità che si attuano nel tempo » (9): è a dire, il figlio non è un prodotto casalingo, è stato pensato, voluto e amato per un destino che mai nessun genitore umano potrebbe consegnare a un figlio, per quanto amato: diventare divino, far parte della famiglia di Dio. La genealogia di nostro figlio risale a Dio (altro che genogramma!) è scaturita da lì, dal cielo: e come potrei osare io genitore di pensarlo “fatto da me” e quindi manipolabile a mio piacimento? La fecondità, in ultima analisi, risale a Dio.
Ma c’è di più: «La paternità e la maternità
rappresentano un compito di
natura non semplicemente fisica, ma
spirituale: attraverso di esse, infatti,
passa la genealogia della persona che
ha il suo eterno inizio in Dio e che a
Lui deve condurre» (10).
La materia che i coniugi forniscono
alla vita non è infatti una materia
puramente fisica (che cosa c’è di solo
fisico in un embrione umano che contiene
in sé la programmazione del
proprio sviluppo?) ma spirituale, è
un’azione che informa il corpo, il quale
diviene corpo spiritualizzato: «Il
corpo non può mai essere ridotto a
puramateria, è un corpo spiritualizzato,
o uno spirito corporeizzato» (19).
Il nostro bambino, venuto da noi, ma
nel contempo inedita e irripetibile
unione dei cromosomi paterni e materni
è in sé stesso un dono: «Il neonato
si dona ai genitori per il fatto stesso
di venire all’esistenza... egli è anzitutto
“la gloria di Dio”» (11), ci mostra
un nuovo carattere della fecondità: la
non manipolabilità. Il compito spirituale
della crescita dei figli inizia qui:
in famiglia il figlio impara sulla sua
pelle la “civiltà dell’amore”.
Ogni uomo si realizza attraverso il
dono sincero di sé, prima ricevuto e
poi dato: la fecondità può nascere là
dove si è esperito, almeno in parte, di
aver ricevuto gratuitamente, per il solo
fatto di esserci (pensiamo ai miliardi
di contatti e di baci che un piccolo
riceve!) e che poi si iscrive nella linea
del “dare a sua volta”. In altre parole,
la fecondità si dà soltanto nella linea
delle generazioni: non può essere che
un umano si inventi ex novo la fecondità,
anche se qui non si può insinuare
nessuna terroristica equazione: tu
puoi dare solo quanto hai ricevuto.
Anzi, la fecondità, dopo e solo dopo
aver visto quei pani e quei pesci
che gratuitamente si è ricevuto, può
moltiplicarli. È questa, in fondo, la ragione
della famiglia: «La famiglia è infatti
– più di ogni altra realtà umana –
l’ambiente nel quale l’uomo può esistere
per sé stesso mediante il dono
sincero di sé» (11).
La fecondità proviene dal legame
tra generazioni, dunque, ma non solo:
Giovanni Paolo II si tiene ben distante
dal mito che la famiglia basti a
sé stessa: «I genitori vengono educati
attraverso altri genitori», e questa è
«forma preziosa di apostolato delle famiglie
fra di loro» (16).
La fecondità cioè spalanca la famiglia,
mette in atto un processo che costringe
a uscire dal proprio appartamento
e in ciò diviene Chiesa domestica.
Proprio la natura della fecondità
ci ha portato fuori dalle quattro mura
in cui spesso rinchiudiamo il nostro
“fai da te” privatistico: «Creare
uno spazio comunitario per l’affermazione
di quest’uomo in concreto» (19); la famiglia cioè è Chiesa domestica
in tanto in quanto fa Chiesa, cioè
lavora per la comunione, secondo il
suo proprio metodo familiare: «Paolo
sintetizza il tema della vita familiare
con la parola grande mistero poiché
in esso si esprime l’amore sponsale di
Cristo per la sua Chiesa» (19).
Allora comincia a diventare chiaro
il significato dell’affermazione di Giovanni
Paolo II, condivisa da tutto il
Magistero (almeno in linea teorica!)
su cosa comporti l’affermazione che
la famiglia sia via della Chiesa: «Se prima
via della Chiesa è la famiglia, occorre
aggiungere che anche la civiltà
dell’amore è via della Chiesa» (13).
Nello svolgimento di questa riflessione,
siamo dunque venuti identificando
questa civiltà dell’amore con il
termine di “fecondità familiare” che
ora si prospetta come “fecondità ecclesiale”.
I caratteri della fecondità
che siamo venuti via via elaborando
così si possono esprimere:
- fecondità come essere in comunione;
- fecondità come essere in altro;
- fecondità come lasciar essere l’altro
come altro da sé;
- fecondità come ricevere da Dio il
figlio per sé stesso;
- fecondità come compito spirituale;
- fecondità come legame tra generazioni;
- fecondità come collegamento in
forza della civiltà dell’amore. Saremo
infatti giudicati sull’amore.
Scoprire e vivere in quale senso tutto
questo porti alla Chiesa è sicuramente
un compito urgente sia delle
famiglie sia del Ministero ordinato;
già nel 1994 un profeta polacco ce ne
ha aperto ampiamente la via.