Giaccone «Loro Piana» blu di cachemire e golf a collo alto crema: così si è presentato il presidente russo Vladimir Putin allo stadio Lužniki di Mosca per fare un bagno di folla e di applausi per il suo breve discorso. Una dimostrazione di forza (e di debolezza sub contraria specie) che rappresenta un cambio di retorica rispetto all’immagine algida e distante che Putin ha dato fino ad oggi in questo conflitto. Riuscito? Non sappiamo.
Era il 18 marzo, l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea, ma soprattutto la data di nascita di Fëdor Fëdorovic Ušakov, ammiraglio dell’era zarista proclamato santo dalla Chiesa ortodossa russa nel 2001. Chiaro il significato simbolico: la guerra in corso sarebbe sotto la protezione di un santo guerriero, il quale, tra l’altro, nel 2005 fu dichiarato patrono dei bombardieri nucleari. Fede cristiana e bombe nucleari appaiono tragicamente connesse a servizio dello Stato e della sua «sicurezza». Putin aveva postulato l’idea già nel 2007.
A inizio marzo il patriarca di Mosca Kirill aveva parlato di questa invasione come di «una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico». Ha proiettato così l’offesa bellica di natura politica sullo scenario di una lotta apocalittica, uno scontro finale, tra bene e male. La divinità così è la proiezione ideale del potere costituito. La nazione è il «popolo eletto», e la fede stessa lo contrappone a chi non gli appartiene, cioè al «nemico» e al dissidente, definito da Putin «moscerino da sputare». L’appello militare all’apocalisse giustifica sempre il potere voluto da un dio. Esso è proprio, per esempio, dello jihadismo, ma anche delle forme di suprematismo neo-crociato viste di recente negli Stati Uniti. Tornano in mente altre adunate ricche di liturgie, da quelle fasciste e naziste a quelle comuniste.
Per questo il Pontefice ha posto un gesto umile e schiettamente profetico: consacrare al Cuore immacolato di Maria la Russia e l’Ucraina. Insieme, come sorelle, e non come nemiche. Per questo al patriarca di Mosca Kirill, con il quale ha dialogato da fratello in videoconferenza, Francesco ha detto che «la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù», che è quello della riconciliazione, della pace e dell’amore. Già, dell’amore. E proprio Putin nello stadio Lužniki di Mosca ha pronunciato queste parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Sono le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni (15, 13), qui usate per giustificare l’invasione e l’odio.
La concezione tribale della religione e dell’amicizia è però l’opposto del Vangelo, che invece si fonda sull’«amate i vostri nemici» (Mt 5, 43). La retorica religiosa del potere e della violenza è blasfema. La tragedia ucraina è dunque anche una tragedia cristiana. E proprio per questo è necessario tenere ben aperta la porta del dialogo ecumenico: per incidere sul futuro politico di una riconciliazione tra due popoli, molto lontana quanto necessaria.