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venerdì 18 aprile 2025
 
 

Il nemico ti siede accanto

14/05/2013  In una settimana ben cinque omicidi di donne da parte di ex partner. La violenza di chi non accetta i rifiuti e gli abbandoni è sempre diffusa. Ma si può e si deve affrontare.

La lista delle donne uccise, ferite o picchiate sevaggiamente per mano di uomini loro fidanzati, compagni, mariti o ex è sempre aperta. Difficile in realtà leggere i dati di questo tragico fenomeno poiché bisognerebbe poter valutare se si tratta di un escalation di casi o un di aumento di denuncie. Certo è che durante questo mese in una settimana la cronaca ha raccontato ben cinque fatti di femminicidi. Ma al di là dei numeri ciò che spaventa è che, nonostante l'allarme e la denuncia sociale, resta viva la mentalità di certi uomini incapaci di accettare un rifiuto o un abbandono.

Gli assassini o i violenti non sono sconosciuti per la donna. Sono ex mariti, ex fidanzati o corteggiatori respinti e spesso la violenza estrema si è manifestata dopo persecuzione e minacce da parte di questi uomini e nonostante la denuncia delle vittime.

L'Osservatorio Nazionale Stalking ricorda infatti le molte persone che hanno perso la vita per una separazione non accettata, per un rifiuto, per le dinamiche solite dello stalking. Le vittime sono partner, ex partner, conoscenti e familiari. Il movente di chi le ha uccise è spesso legato all'incapacità di accettare una separazione, un abbandono, un rifiuto. Ma la cosa più grave è che in oltre il 50% dei casi ci sono stati chiari prodromi di stalking e violenza. Eppure la spirale dell'orrore, denuncia l'osservatorio, non è stata fermata in tempo.

Sulla stessa linea anche i dati dell'Associazione Telefono Rosa riguardanti il 2012, resi noti a marzo e tra i rari numeri che abbiamo in Italia sul fenomeno degli omicidi e delle violenze. Confermano che la violenza si scatena quasi sempre tra le mura domestiche, all'interno di un rapporto affettivo o sentimentale. L'autore è dunque il marito (48%), il convivente (12%) o l'ex (23%), un uomo tra il 35 e i 54 anni (61%), impiegato (21%), istruito (il 46% ha la licenza media superiore e il 19% la laurea). Non fa uso particolare di alcol o di droghe (63%). Insomma, un uomo "normale". Così come normale è la vittima: una donna di età compresa fra 35 e 54 anni, con la licenza media superiore (53%) o la laurea (22%); impiegata (20%) o disoccupata (19%) o casalinga (16%), con figli (82%).

La maggior parte delle violenze continuano ad avvenire in casa
, all'interno di una relazione sentimentale (84%), in una famiglia senza apparenti problemi. L'atto non è mai isolato ma è costante e continuo (81%) e non finisce con la chiusura del rapporto ma si protrae anche dopo, spesso con un atteggiamento persecutorio (stalking). La violenza fisica aumenta dal 18% al 22%, ma si accompagna sempre a violenza psicologica, minacce, violenza economica. Sale, dal 13% al 18%, la percentuale di donne che ammettono che la debolezza le ha spinte per anni a sopportare la situazione (il 35% da uno a 5 anni, il 34% da 5 a 20 anni e il 12% per oltre 20 anni), mentre diminuisce dal 14% all'11% la convinzione di tollerare la violenza per amore.

Il dispositivo elettronico per gli stalker
Il dispositivo elettronico per gli stalker

    Il picco di femminicidi di inizio maggio (cinque donne uccise in una settimana) ha pungolato ministri e figure istituzionali a dire e fare qualcosa di concreto. Perché il pericolo maggiore di fronte alle tragedie che non finiscono, è di considerarle inevitabili. Così, per prima è intervenuta il ministro delle Pari opportunità Josefa Idem, con il proposito di istituire un Osservatorio nazionale sulla violenza contro le donne: anche i numeri, infatti, sono controversi su questo fenomeno, e invece uno dei primi passi per combatterlo è conoscerlo nei dettagli. Idem ha anche proposto la creazione di una task force interministeriale, iniziando dal suo dicastero in alleanza con Interni e Giustizia, e allargando poi l'impegno comune a Lavoro, Salute e Istruzione.

    Il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha risposto in ventiquattro ore all'appello della collega di governo, ipotizzando l'introduzione di un braccialetto elettronico per gli stalker che siano stati sottoposti a provvedimenti interdittivi. Il dispositivo sarebbe un deterrente per tenerli lontani dalle vittime, visto che non pochi, tra i persecutori, continuano a tormentarle e minacciarle nonostante denunce e diffide. E' terribile sapere che il 47,2 per cento delle donne uccise nel 2012 avevano già denunciato il loro futuro assassino. Allo studio di Cancellieri e Alfano, ministro degli Interni, c'è inoltre la possibilità di modificare l'articolo 612 bis del codice penale, che punisce gli atti persecutori, prevedendo l'arresto d'ufficio e non a querela di parte come ora.

   

La presidente della Camera Laura Boldrini
La presidente della Camera Laura Boldrini

La presidente della Camera Laura Boldrini ha sostenuto che ormai è necessario «sollevare il tema della violenza alle donne al livello più alto, quello istituzionale», aggiungendo: «Dobbiamo chiederci se vogliamo dare battaglia - una battaglia culturale - alle aggressione alle donne a sfondo sessuale». Con un coraggio pubblico che è la costante della sua vita, Laura Boldrini ha anche parlato della valanga di e-mail aggressive, insultanti, minacciose che le sono state riversate addosso dopo la sua nomina. Espressioni purtroppo numerose di un sessismo sub-culturale che non ci si stancherà mai di condannare abbastanza.

  E' poi compito del Parlamento ratificare (perché finora non l'ha fatto), la Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale del 2011 che definisce la violenza contro le donne una violazione dei diritti umani, e che assicura fondi e norme per prevenire la violenza, anche quella domestica. Perché l'insufficienza dei fondi è uno dei problemi maggiori per i centri anti-violenza in Italia, che sono 127 (e 61 di essi dispone di case rifugio per le vittime che, con o senza figli, debbono abbandonare la loro abitazione per salvarsi la vita). Ormai il 30 per cento dei centri rischia la chiusura per mancanza di mezzi.

Le leggi contro la violenza non mancano, ora i responsabili politici hanno dichiarato all'unisono la volontà di assicurarne un'applicazione migliore, per fermare una tragedia che non è inevitabile. L'importante è che passino dalle parole ai fatti. Presto però, prima di veder aumentare quella scia di sangue innocente.

Rosanna Biffi

«Mi sono sentita impotente. Bloccata dalla sua forza. Mi colpiva con una violenza inaudita, come se fosse posseduto da qualcosa di superiore. Pugni feroci in faccia. Calci alle gambe e alla pancia. Schiaffi a cascata sul volto. Era irrefrenabile. Alla fine, non contento, il coltello. Lucido e affilato. Ho visto il vuoto, mentre me lo affondava nel petto. Un dolore che non accennava a smettere. In quel momento ho pensato ai miei bambini. Mi hanno dato forza». Parole crude e struggenti, quelle di Anna (nome di fantasia). Trattengono una sofferenza atroce e faticano a non restituire un’immagine nitida della scena raccontata. Purtroppo, non sono estratte dalla sceneggiatura di un film drammatico. E non sono il frutto della fantasia di un bravo scrittore. Tutt’altro. Rappresentano il tentativo disperato di descrivere la sua esperienza. Vera fino in fondo. Una storia che non dimenticherà facilmente e i cui strascichi attraversano ancora i suoi sogni. E il suo sonno.

33 anni, 2 bambini di 7 e 3 anni, un matrimonio fallito alle spalle. Una vita di coppia come tante, in una vivace e operosa cittadina della Puglia, alle porte di Bari. Anna tenta di rialzarsi dopo una “frattura” non facile da sanare. Pian piano trova un lavoro, conosce un nuovo gruppo di amici e incontra Fabio (nome di fantasia). Un uomo. Più grande di lei di 7 anni. Maturo, sorridente e affabile. Finalmente una traccia di calda serenità in quel cielo cupo, gelido e coperto dal grigiore della battaglia legale avviata per la separazione e l’affido congiunto dei figli. Non sembra quasi vero. La sua gentilezza e il suo rispetto si oppongono all’insensibile superficialità del precedente compagno di vita. Iniziano a frequentarsi. Stanno bene insieme.

Ma in lei non succede nulla di più. Trascorrono appena tre mesi, ma Anna capisce. Non è l’uomo per lei. Non avverte il trasporto e il conseguente coinvolgimento. Lo vede e lo sente come un amico. Gradisce la sua compagnia e le sue attenzioni, ma niente di più. In lui accade il contrario. Se ne innamora, giorno dopo giorno, serata dopo serata. Fino ad arrivare a chiederle di più. Vuole definire la loro storia, capire se può avere un futuro. E i due lati del ponte non si incontrano. Le aspettative viaggiano su binari paralleli. Lei cerca di chiudere con delicatezza questa storia non ancora sbocciata. Lui, invece, cerca di sigillarla con un passo ulteriore. Un incontro, voluto da entrambi, offre l’opportunità per essere chiari.

«Era amareggiato, questo sì. Forse aveva progettato ben altro per tutti e due. Continuava a ripetermi che tra noi avrebbe funzionato, che eravamo fatti l’uno per l’altra. Ecco perché il mio discorso lo aveva turbato. Le sue attese erano crollate. Io non volevo continuare. Non ero ancora pronta per un legame duraturo», spiega ancora incredula Anna. «Eppure mi era sembrato tutto a posto. Ci eravamo comunicati i rispettivi sentimenti e lui mostrava di aver compreso, anche se la sua sofferenza era palpabile. E invece no! Il mattino dopo una nuova telefonata. Voleva incontrarmi. Diceva che era urgente. Fui costretta ad allontanarmi dall’abitazione dove stavo svolgendo il mio lavoro. Mi aspettava in macchina, con le stesse richieste della sera precedente. Ero la donna della sua vita e non potevamo lasciarci. Dovevamo tornare insieme e riprovare. Avremmo sciolto ogni dubbio. La mia risposta, espressa con molta calma, fu identica a quella del giorno prima: non potevamo più vederci. Un po’ di silenzio e poi la tragedia», racconta la donna. Dopo averla ferita con un coltello, la lascia in balia di sé stessa. Fugge impaurito.

Anche se distrutta e sconvolta da un gesto così violento e inaspettato, Anna trova la forza di reagire. Chiama i suoi genitori e riesce ad arrivare al Pronto Soccorso più vicino. Solo due centimetri più in profondità e il coltello avrebbe trafitto il suo cuore. Sostenuta da suo padre e da sua madre, riesce a sporgere una denuncia contro il suo aggressore. I carabinieri non hanno dovuto compiere molte ricerche: Fabio si costituisce spontaneamente. Siamo nell’ultima settimana di aprile. La mattina seguente si svolge il processo per direttissima, al termine del quale il giudice sentenzia la sua colpevolezza e stabilisce la pena: un anno e mezzo di detenzione. Il successivo patteggiamento, a fronte del quale si riconosce “pulita” la sua fedina penale, smorza i toni e affievolisce i termini della sentenza. Fabio può tornare in libertà. È incensurato.

Anche se la perizia psichiatrica ha rilevato una serie di disagi che andrebbero tamponati quanto prima. «Ha avuto uno scatto d’ira. Così mi hanno spiegato le autorità», commenta rassegnata Anna. «Ma non credo che un gesto di questo tipo possa essere giustificato. Adesso lui è tornato in libertà. E a me cosa succederà? Chi mi proteggerà? Tornerà a tormentarmi? Ho molta paura. Tremo al solo pensiero di rivederlo», conclude la vittima. E come non darle ragione? Una donna picchiata e maltrattata in questo modo non tornerà a essere subito serena. Ci vorrà del tempo per elaborare il trauma. Per lenire la ferita esterna e per prosciugare il dolore interno che questo episodio le ha procurato. Tutto questo mentre il suo aguzzino tornerà alla vita di sempre.

Simone Bruno

Il fotografo Oliviero Toscani
Il fotografo Oliviero Toscani

Che cos’hanno in comune il sacerdote ultraconservatore di Santerenzo (Sp) che salì (ma forse sarebbe più corretto dire scese) ai disonori della cronaca nel dicembre dello scorso anno per aver affisso un criticatissimo foglietto in chiesa e il fotografo Oliviero Toscani appassionato di provocazioni che tante volte hanno fatto suscitato critiche aspre dal mondo cattolico? Probabilmente nulla. Tranne una curiosa coincidenza di idee. Sul foglio appeso da don Corsi, e presto tolto dai muri della chiesa per ordine del vescovo, si leggeva: «Donne e ragazze in abiti succinti provocano gli istinti, facciano un sano esame di coscienza: forse ce lo siamo andato a cercare». Più o meno la stessa cosa ha sostenuto pochi giorni fa Oliviero Toscani: «Le donne smettano di mettere il rossetto e di portare i tacchi e saranno al sicuro da violenti e maniaci»

Gli antipodi da cui lo citiamo danno l’idea che il pregiudizio di far ricadere la presunzione di colpevolezza sulle donne provocatrici goda tuttora di una almeno simbolica trasversalità, anche nel 2013, lontano dai tempi in cui il codice penale concedeva attenuanti per i delitti per causa d’onore, considerava punibili per adulterio solo le donne e considerava la violenza sessuale reato contro la morale anziché contro la persona. Le leggi nel frattempo sono cambiate, ma evidentemente – lo si evince dalle parole sopra riportate - è più difficile cambiare la mentalità delle persone, per cui pare tuttora valere quello che Leonardo Sciascia scriveva in 1912+1 a proposito di una vicenda di un secolo fa: «La convinzione che, nei casi di violenza carnale, la donna avesse sempre torto, coscientemente o incoscientemente, che rappresentasse e una provocazione era di pronto e lubrificato scatto».

Evidentemente in alcuni, si spera pochi, quella convinzione scatta ancora con identico automatismo.
Chissà se chi la sostiene pubblicamente si rende conto di offendere così soprattutto gli uomini, tacciati implicitamente d’animalità, quasi che ragione e volontà fossero un fatto secondario o comunque insufficiente. Se invece, com’è probabile, solo di provocazione si tratta, sarebbe il caso di limitarla se non per rispetto di sé stessi, almeno per rispetto delle troppe donne che certi reati hanno subìto.

Elisa Chiari

Fausto Cardella, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila
Fausto Cardella, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila

I dati sulla violenza e sui maltrattamenti contengono un’evidenza difficilmente contestabile: le vittime denunciano assai di rado. Le ragioni sono facilmente intuibili, ma c’è un aspetto, in apparenza marginale, di cui si tiene poco conto: la traumaticità intrinseca del processo.

Ne parliamo con Fausto Cardella, capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila, una lunga esperienza di magistratura alle spalle come pubblico ministero e come giudice, che ha già sollevato questo problema in occasione di dibattiti pubblici.

- Dottor Cardella, al di là di quello che tutti possiamo immaginare, riusciamo a spiegare meglio in che cosa consiste questa traumaticità, dal momento che parliamo di vittime, non di imputati?

«Il processo è traumatico sempre e comunque per tutti, figuriamoci per chi ha già subito un trauma gravissimo come la violenza o lo stupro. Ma vale anche per i casi di stalking perché comunque si va a incidere su una sfera molto privata, collegata a pregressi rapporti con il partner. Si tratta di indagini necessariamente invasive, in cui la ricerca dei riscontri passa per domande invadenti e tali da evocare ricordi fastidiosi che si preferibbe evitare. E invece si finisce per essere chiamate a ripetere il racconto al medico del pronto soccorso, alla polizia, al pm e poi al processo e magari anche al processo di appello».

- C’è una possibilità di contenere questo trauma senza riscrivere le leggi attuali?

«Una modifica intervenuta nel 2009 al Codice di procedura penale permette di applicare in maniera estensiva al caso della vittima di violenza, ma non a quella delle lesioni personali, l’istituto dell’incidente probatorio, anche al di fuori dei casi strettamente previsti, tenendo conto del fatto che possono verificarsi condizionamenti e intimidazioni. Va ricordato infatti che, la maggior parte delle volte, violenze e i maltrattamenti non sono opera di sconosciuti ma di partner maneschi, spesso conviventi. L’incidente probatorio (cioè la prova che si forma prima del dibattimento pubblico perché non “ripetibile” ndr.) fa sì che, in questi casi, si acquisisca al processo “il pacchetto di dichiarazioni” reso dalla vittima durante le indagini. Spesso, però, tutto ciò non basta: bisognerebbe che tutte le parti del processo facessero un passo in più, imponendosi un’autodisciplina per richiamare la vittima a testimoniare solo in casi di assoluta necessità».

- E invece?

«Invece la vittima, che in teoria ha già detto quello che doveva dire nell’incidente probatorio, viene risentita dal giudice animato dal lodevole intento di approfondire e poi dalla difesa che ha interesse a verificare eventuali contraddizioni, e magari di nuovo in appello: tutte cose in sé importanti per le garanzie, ma con l’effetto collaterale per la vittima che ha già subito un danno grave di riviverlo più volte. Forse non è il principale dei problemi, ma sarebbe un atto di sensibilità porselo».

- Ritiene che sia una delle ragioni per le quali questi reati si denunciano così di rado?

«Dobbiamo ricordare che i casi più frequenti, segnalati dal pronto soccorso, sono quelli di donne sistematicamente malmenate dal partner, che una volta sola, esasperate da un’aggressione più violenta del consueto, trovano il coraggio di andare a farsi medicare e lì al posto di polizia finalmente raccontano. Poi il tempo passa, con il compagno violento si deve continuare a vivere, magari perché manca l’autonomia economica e ci sono figli di mezzo, e spesso la forza di riconfermare le dichiarazioni rese non si trova più: sono la norma i “non ricordo”, i“forse ho sbattuto”, i “non voleva davvero fare male”. Per paura, per necessità, per vergogna spesso le donne maltrattate che denunciano tendono a ritrattare e giustificare. Dover riconfermare, tre, quattro, cinque volte il racconto davanti a tutti di certo non aiuta, né loro, né la verità».

Elisa Chiari

Alfredo (nome di fantasia) si giustifica così: «In fondo non credo veramente di essere una persona che possa essere definita "violenta". In fondo quella sera, quando abbiamo litigato, lo schiaffo che le ho dato non era così forte».
Marco
tenta di minimizzare: «Parliamoci chiaro, io sono un esperto di boxe e se avessi voluto colpirla per punirla seriamente, il pugno che le ho tirato non l'avrebbe certo fatta rialzare subito».
Francesco
, artigiano 42enne di Modena, si ferma invece a riflettere: «L'insegnante di mio figlio di 9 anni mi ha chiesto se in casa ci fosse qualche problema perché il bambino stava andando male a scuola, era molto distratto e insolitamente aggressivo con i compagni. Allora ho provato a pensare a ciò che succede in casa nostra. Io lavoro un sacco di ore, mia moglie anche e tra noi le cose non funzionano più, a volte lei mi esaspera, litighiamo, e mentre urlo, le do una sberla, o la spintono. Magari può essere che a volte cada in terra ma poi tutto finisce lì e facciamo la pace».
«Ancora una volta», racconta Mauro, «dopo l'ennesimo litigio, la mia mano non si è fermata così come non si erano fermate le parole e le spinte. Poi le botte, le urla e il sangue. Già, il sangue. Quella mattina ho capito. Ho capito che me la stavo raccontando, cercando sempre delle giustificazioni. Così sono venuto da voi».

La cronaca li chiama mostri. Per gli esperti del centro "Liberiamoci dalla violenza" di Modena sono solo persone che hanno scelto l'aggressività come scorciatoia per risolvere i problemi personali e di coppia. Una scorciatoia che, numeri alla mano, si è trasformata in emergenza: nel 2012 sono state 124 le donne uccise in Italia dal marito o compagno. Una ogni due giorni. Nel 2011 furono in totale 137, una vittima ogni 72 ore. Negli ultimi tre anni i femminicidi in Italia sono aumentati del 10%. È l'incremento maggiore rispetto agli altri Paesi europei, secondo l'associazione "Non siamo complici". Sull'onda emotiva della cronaca molti, a cominciare dai politici, chiedono di inasprire le pene, già durissime, per gli assassini. Scorciatoia chiama scorciatoia. E non risolve nulla. Resta la strada, difficile ma sicuramente più utile, della prevenzione.


Il progetto di Modena - Prevenzione: è quello che da quasi un anno stanno tentando di fare gli esperti del Consultorio familiare di via don Minzoni 121 a Modena, dove ha sede il centro "Liberiamoci dalla violenza" (Ldv) che accoglie uomini violenti. «È il primo sportello pubblico, realizzato grazie alla collaborazione tra l'Ausl di Modena e la Regione Emilia Romagna, che ha avviato un esperimento del genere in Italia», spiega la coordinatrice Monica Dotti. È aperto tutti i venerdì dalle 13,30 alle 17,30, e si può contattare al numero di telefono 366.57.11.079 o scrivendo una mail all'indirizzo: ldv@ausl.mo.it

Vi lavorano tre psicologi: Giorgio Penuti, Alessandro De Rosa e Paolo De Pascalis. Tutti uomini. «Parlare dei propri gesti violenti con una donna», spiega Dotti, «avrebbe avuto un effetto inibitorio. Per questo aspetto, ma non solo, ci siamo ispirati al centro di Oslo Alternative to violence, dove lavorano solo psicologi maschi». Da quando ha aperto, nel dicembre 2011, a ottobre scorso, lo sportello modenese è stato contattato da una novantina di persone, tra cui undici donne che hanno chiesto informazioni per inviare il proprio partner. Attualmente sono in trattamento 18 uomini. Tre sono stranieri. Altri quattro sono in lista d'attesa. Si tratta di operai, artigiani, piccoli imprenditori, impiegati. C'è anche un pensionato. La fascia d'età più rappresentata va dai 35 ai 50 anni. Il 90% degli uomini in cura ha dei figli.

«L'esperienza coniugale si può interrompere», spiega Dotti, «ma genitori si resta tutta la vita. Per questo è importante che i figli sappiano che il loro papà sta cercando di cambiare e ha intrapreso un percorso di cura». Si comincia da un colloquio preliminare, poi si decide la terapia. Agli uomini violenti viene fatto firmare una protocollo di consenso per poter contattare la partner e comunicarle che ha iniziato un trattamento. «L'obiettivo è di mettere in sicurezza la famiglia», dichiara Dotti. Alcune persone che si sono rivolti al centro non hanno mai alzato un dito nei confronti della partner. Chiedono solo aiuto per gestire la propria ira e aggressività, che all'inizio magari si sfoga sugli oggetti.

In gravidanza il rischio violenza aumenta - Giorgio Penuti, psicologo, psicoterapeuta e mediatore familiare, è uno dei tre esperti che lavora nel centro modenese. «Le persone che vengono da noi sono quasi tutte in fase di separazione o pre-separazione», spiega. «Un uomo è venuto perché aveva preso a schiaffi la moglie incinta». Un dato su cui riflettere. «Durante il periodo di gravidanza il rischio per la donna di subire violenza aumenta notevolmente», fa notare Penuti, «perché si tratta di una fase di transizione, di passaggio, in cui il nucleo familiare è destinato ad allargarsi e diventare più complesso. La partner comincia a concentrarsi di più sul figlio in arrivo e l'uomo, sentendosi messo da parte o comunque immaginando che lo sarà in futuro, prorompe in gesti di aggressività e rabbia, dettati magari dal risentimento».

Anche la gelosia gioca un ruolo fondamentale
. «In molti casi», afferma l'esperto, «questo sentimento può tradursi in fenomeni di sopraffazione o nel tentativo di controllo ferreo della partner in tutti i suoi spostamenti e azioni. Alla base di tutto, c'è un difetto di controllo delle proprie emozioni ma anche la volontà di affermare il proprio potere sulla compagna». Se le donne sono le vittime dirette della violenza, i figli lo sono indirettamente. Ma con conseguenze ugualmente devastanti. «I bambini che assistono a questi episodi subiscono danni pesantissimi che si traducono in paura e disorientamento quando diventeranno più grandi», spiega Penuti.

Vittime di ieri, mostri di oggi - C'è un altro aspetto importante in questo fenomeno, a volte poco sottolineato, se non taciuto. Spesso i "mostri" di oggi sono le vittime di ieri. La violenza genera altra violenza, lascia tracce che possono riemergere anche a distanza di molti anni.
«I dati», spiega Penuti, «parlano chiaro. Gli uomini che usano violenza nei confronti delle donne, nel 60% dei casi, a loro volta, hanno subito violenza da piccoli o assistito in famiglia a episodi del genere». Al centro si presentano tanti soggetti che hanno vissuto questo tipo d'esperienza. Come quella persona che da bambino, a fronte di qualche marachella, veniva sistematicamente picchiato con la cintola dal padre. «Era quasi un rito», racconta Penuti. «Il bimbo, ovviamente, si sentiva offeso, umiliato e impotente».
Una cosa è certa: è difficile trarre conclusioni generali sulle cause di un fenomeno così complesso. C'è la difficoltà da parte dell'uomo di individuare e controllare la propria rabbia, quella di mettersi nei panni della propria compagna o di tenere in piedi un rapporto. Guai però a semplificare. «La violenza non è mai da intendersi come uno sfogo», chiarisce Penuti. «Questo è un luogo comune. Ogni atto violento è il tentativo di affermare il proprio potere sulla persona che ci è accanto attraverso la minaccia, il disprezzo e l'umiliazione».

Antonio Sanfrancesco

Contrariamente a quanto molti pensano, la violenza sulle donne non è un fenomeno esploso all’improvviso: c’è sempre stata, è solo che prima veniva occultata; oppure considerata l’esito di un momento di follia, e subito archiviata. Adesso, invece, finalmente se ne parla e si comincia a comprendere natura e portata del problema. Continua però a esserci molta confusione.

Per combattere la violenza sulle donne bisogna innanzitutto riconoscerla e saperla definire come espressione di una discriminazione, di un ordine sociale diseguale fondato su rapporti non paritari, in cui le donne sono considerate inferiori. Rispetto ad altri stati europei, quello che fa dell’Italia una delle realtà sociali più a rischio è proprio il fatto che la parità è stata raggiunta soltanto a parole. Questa parità teorica è deleteria, perché fa passare per acquisito qualcosa che è ancora ben lontano dall’essere stato raggiunto: basta guardare la suddivisione degli oneri familiari, la situazione delle donne nei luoghi di lavoro, l’uso che del corpo femminile viene fatto in tv e sui giornali.

Per sradicare la violenza bisogna intervenire su più fronti
: da una parte, agendo sulle coscienze, insistendo sul rispetto, l’uguaglianza e le pari opportunità (in questo, genitori e insegnanti possono svolgere un ruolo decisivo); dall’altra, rendendo più tempestiva ed efficace l’azione dello stato: infatti, non sempre da una denuncia parte subito un’indagine che porta a risultati concreti in tempi brevi. Il sistema giudiziario dovrebbe dunque essere riorganizzato per garantire processi più rapidi, dando nel contempo una formazione ad hoc a magistratura e forze dell’ordine: questo sarà possibile solo se la questione della violenza sulle donne entrerà finalmente nell’agenda del nuovo governo.

Giulia Bongiorno

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