Amina veste solo di nero. Lo fa da un anno, dal giorno in cui suo glio Khalid è morto combattendo nell’esercito di Bashar al-Assad. Quando le scie dei missili americani si erano appena spente nel cielo di Damasco, però, ha portato il suo lutto in piazza degli Omayyadi, il cuore della Damasco moderna, e con decine di altre persone, tra bandiere e suoni di clacson, l’ha trasformato in sollievo e orgoglio. Sollievo, perché i bombardamenti americani, inglesi e francesi erano stati meno disastrosi di quanto temuto. Orgoglio perché questo è stato preso come una vittoria. «Non siamo corsi a nasconderci ma siamo scesi in piazza», dice lei, «non abbiamo paura». Nella folla avrà forse sfiorato Asma (stesso nome della moglie del presidente Assad), che in piazza è andata con il figlio quattordicenne. Quando chiedo perché l’ha fatto, risponde: «Per dire a Trump che abbiamo resistito per sette anni, resisteremo ancora e resisteremo sempre».
Per quanto dalle nostre parti si fatichi a capirlo, il sentimento del siriano medio, del signor Rossi di Damasco o di Aleppo, è segnato soprattutto dalla stanchezza per una guerra tremenda che ha seminato tragedie in quasi tutte le famiglie e che, ai loro occhi, è scoppiata soprattutto per il desiderio di altri Paesi di distruggere la Siria. Per questo gli ultimi interventi occidentali sono ancor più invisi. Sono interpretati come l’ultimo tentativo di prolungare le loro sofferenze, proprio quando l’esercito nazionale e gli alleati russi, iraniani e libanesi stavano per travolgere gli ultimi presidi di quelli che per i nostri giornali sono “ribelli” mentre per la gran parte dei siriani sono tutti, senza eccezione, “terroristi”.
«L’incubo quotidiano». Lo spiega bene padre Amer Kassar, parroco siro-cattolico della chiesa della Madonna di Fatima, nel quartiere Qassah di Damasco. «Ghouta, Douma... ora questi nomi sono famosi anche da voi», dice il sacerdote. «Noi, invece, che ci troviamo a due chilometri in linea d’aria da quei sobborghi, per sette anni siamo stati sulla linea del fronte, bersaglio di missili e colpi di mortaio. In questo quartiere e in quelli di Bab Toumaq e Al Shagour, ovvero dove la presenza cristiana è più forte, ci sono stati 13 morti in una sola settimana. E nella mia parrocchia un mortaio ha ucciso una ragazza e troncato una gamba all’amica che era con lei. Per non parlare dei rifugiati che in questi anni sono affluiti nella capitale e che dobbiamo assistere perché possano tirare avanti, con i prezzi dei generi alimentari alti e gli affitti insostenibili. Ed ecco che, quando l’esercito riesce a mettere fine a questo tormento, l’Occidente costruisce una nuova crisi sulle armi chimiche, anche se nessuno sa che cosa sia davvero successo a Douma».
Di questa fase crudele, segnata dalla voglia di farla finita e da una resistenza disperata e ancor più feroce, è testimone anche Edoardo Tagliani, un volontario di Avsi, la fondazione che realizza progetti di sviluppo ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa cattolica. Attiva a Damasco e ad Aleppo, Avsi è partner tecnico della Nunziatura vaticana in “Ospedali aperti”, il progetto che offre cure mediche gratuite in tre ospedali cattolici di un Paese dove il 45% delle strutture sanitarie pubbliche e il 65% di quelle private è stato raso al suolo. «In Siria si muore per le armi da fuoco», dice Tagliani, «ma ancor più si muore per patologie banali, come una polmonite non curata perché manca l’accesso all’assistenza medica di base».
Quanto agli ultimi eventi, Tagliani dice: «In questi mesi, a causa delle operazioni militari tese a liberare il Goutha e la città di Douma, il conflitto si è riversato su Damasco come non accadeva da tempo. I ribelli hanno risposto con mano pesante. Se il cielo della capitale, già prima, era ogni giorno stracciato da missili e mortai, la quantità dei colpi di artiglieria pesante è quasi decuplicata da gennaio a oggi. I feriti accolti nei pronto soccorso degli ospedali con i quali Avsi collabora sono la cronaca spicciola e tangibile di una guerra che non accenna a finire. Come i tanti, troppi cadaveri che abbiamo dovuto seppellire».
Il consigliere del mufti: «Escalation senza fine». Se qualcuno crede che questi siano sentimenti esclusivi dei cristiani (idea da cui deriva la bizzarra convinzione che i cristiani siano fanatici sostenitori di Assad), si sbaglia di grosso. Basil Kes Nasrallah, ingegnere, occupa una posizione unica: è il solo cristiano al mondo che sia consigliere personale di un gran muftì, nel suo caso Ahmad Badreddine Hassoun, la massima autorità islamica della Siria. Un osservatorio privilegiato, che lo spinge a dire: «I rapporti tra cristiani e musulmani oggi sono molto buoni, la guerra ci ha riavvicinati».
Da Aleppo e Damasco si leva un identico desiderio di ricominciare a vivere. Che deve fare i conti, però, con difficoltà enormi. Per esempio gli ultimi sviluppi, con le prospettive di un conflitto ancora più ampio e distruttivo. «Dopo l’attacco missilistico targato Usa, Francia e Regno Unito, il rischio di un’escalation è sotto gli occhi di tutti. I siriani, da Homs a Damasco, da Tartus ad Aleppo, pur estenuati da una guerra che non molla, provano a vivere affollando strade, negozi, ristoranti. Ma vivono appesi. Aspettando, a ogni passo, il prossimo bum. E pregando, ognuno il suo Dio, che quel bum non arrivi mai».
All’ansia per il futuro si sommano ovviamente i danni e le lacerazioni morali e materiali che i sette anni di guerra hanno provocato in tutto il Paese. «I siriani devono affrontare un compito enorme mentre si sentono, e in effetti sono, isolati. Per questo hanno apprezzato il nostro intervento in modo quasi commovente, vista anche la scarsa presenza sul loro territorio di organizzazioni umanitarie». Carla Cocilova è responsabile Solidarietà e cooperazione internazionale di Arci Toscana, che ha fatto rete con la Fondazione Giovanni Paolo II e la Fondazione “Il cuore si scioglie” per sostenere la società civile siriana in due progetti di straordinaria importanza.
Del primo ci parla la stessa Cocilova: «Finanziamo e aiutiamo un’associazione siriana che si chiama “Mano nella mano” e si occupa di bambini disabili, i più esposti alle conseguenze del conflitto, e anche di bambini traumatizzati dalla guerra. Questo vuol dire collaborare a un’attività educativa che coinvolge 900 bambini e ragazzi, con altri 700 in lista d’attesa, e fornisce supporto psicologico e aiuti materiali (per esempio le protesi) a quelli che sono stati vittime degli scontri».
Il convento dei bimbi sotto shock. Dell’altro progetto ci parla fra Firas Lutfi, francescano di Aleppo. Un lavoro che rende in pieno l’idea dei drammi che la Siria ha attraversato e non ha ancora superato. «Nel nostro convento di Terra Santa, ad Aleppo, ci prendiamo cura dei bambini che soffrono di stress post-traumatico a causa della guerra. E lo facciamo usando pittura, musica scultura, teatro e anche lo sport. «Ma la cosa davvero importante è che noi francescani lavoriamo in stretta collaborazione con le autorità islamiche e con il muftì di Aleppo. È un dialogo vero, la condizione indispensabile se, bombe o no, vogliamo davvero avviare la ricostruzione del Paese».