Guardando i banchi della frutta pieni di zucche e le vetrine intonate al clima di Halloween, con gran corredo di scheletri, streghe e fantasmi, ci siamo convinti che l’associare i giorni attorno a Ognissanti a un clima di festa sia solo un fatto esotico che abbiamo supinamente e commercialmente importato, subendo l’influsso nordamericano.
E invece basta scavare un poco nei ricordi e nelle tradizioni - grazie al racconto corale degli amici siciliani - per riscoprire che in Sicilia non si commemorano i morti, come nel resto d’Italia, ma dalla notte dei tempi si “festeggiano”. Con la differenza che “Festa dei morti” nostrana – così si chiama in Sicilia¬ – non ha nulla a che fare con le streghe e con le zucche, ma deriva da riti e culti precristiani che probabilmente hanno qualcosa a che fare con il culto dei Lari dei romani e con altri retaggi ancor più antichi su cui si sono innestate le tradizioni cristiane legate a Ognissanti e alla commemorazione dei defunti. Intanto la Festa dei morti non si celebra il 31 ottobre, ma il 2 novembre a partire dalla notte che precede e non ha niente dell’atmosfera cupa e un po’ paurosa che si riscontra nei travestimenti di Halloween: è una festa – pur nel clima generalmente uggioso per la stagione - allegra, che unisce sentimento religioso e folklore e che si anima in famiglia, più sentita dove ci sono bambini.
Perché almeno finché Babbo Natale non ha completato il suo processo di omologazione sulle tradizioni locali che hanno in comune l’abitudine di offrire doni ai bambini in occasione delle festività, i regali dei piccoli siciliani sono stati (e si spera che siano ancora in qualche casa) di competenza dei morti della famiglia. Narra la leggenda che tornino nottetempo tra l’uno e il 2 novembre per ricompensare i bambini buoni e per “grattare i piedi” ai monelli (per questo la grattugia in Sicilia è l’omologo dei “neri carboni” dei luoghi in cui il compito dell’omaggio è affidato alla Befana e come là si tratta di minaccia agitata ma mai concretizzata).
Oggi è difficile capire se sia opportuno raccontare al presente o all’imperfetto, perché il ricordo ancora solidissimo nei bambini degli anni Cinquanta e Sessanta, solido in quelli degli anni Settanta e Ottanta sta lottando per sopravvivere all’omologazione pubblicitaria che impone Babbo Natale a livello planetario.
Chi ha vissuto la tradizione nel pieno ricorda bene che: «I morti per i bambini che li attendevano non erano né tristi né paurosi, erano anzi misteriosi amici e capitava di soprendersi, nell’ingenuità dell’età, della generosità di nonni che il tempo non aveva concesso di conoscere in vita». Tradizione voleva infatti che, in quella notte trepida, i morti lasciassero un giocattolo desiderato – a Palermo un tempo acquistato dai genitori al mercato di piazza Olivella – e i dolci tipici del periodo: su tutti pupe di zucchero e frutta di marzapane, la celebre “martorana” la quale, assicurano i siciliani cresciutelli, all’epoca non costava quanto ora. E in genere nel “cannistru”, il cestino vuoto lasciato allo scopo sotto il letto del bambino, più o meno generoso secondo le possibilità finanziarie della famiglia, i dolci contavano meno del giocattolo ambito.
Parte del divertimento veniva dal fatto che i morti, meno prevedibili di Santa Lucia e della Befana, non lasciavano banalmente i doni sul tavolo, ma si divertivano a nasconderli “costringendo” il destinatario al gioco supplementare di andarselo a cercare per la casa, come in una domestica caccia al tesoro. Sul rito dei doni s’innestava (e si innesta), la ricorrenza religiosa del 2 novembre: la commemorazione dei defunti, che riuniva bambini, genitori, parenti attorno alla tomba di famiglia, ripulita e preparata con fiori freschi nel giorno di Ognissanti, in genere dalle donne di casa: una visita non cupa, che i bambini accoglievano con lo spirito grato di chi andava a ringraziare per il dono ricevuto. Il tutto prima di un gran pranzo a suggellare la ricorrenza comunque festosa
È probabile che sapere tutto questo non basti a preservare la tradizione dalla prepotenza modaiola di Halloween, ma è vero che da qualche anno a Palermo e a Catania si organizza una manifestazione intitolata “Notte di zucchero”, per aiutare anche i bambini contemporanei a ritrovare il contatto con la tradizione. Un tentativo di far ritrovare ai morti la strada di casa che, come scrive Andrea Camilleri nella raccolta Racconti quotidiani, hanno cominiciato a perdere quando, nel 1943, con i soldati americani, Babbo Natale è sbarcato la prima volta sull’isola.