Se ha ancora senso la festa della donna allora bisogna dedicare questa ricorrenza a Phulmani (nome di fantasia), una donna indiana schiavizzata per quasi vent’anni e costretta a partorire figli – sei in tutto – allattarli per sei mesi e poi cederli alle coppie paganti che li avevano commissionati.
Phulmani è stata ridotta in schiavitù a 13 anni, è stata “liberata” quando ne aveva 31. È l’icona di una delle piaghe più odiose dell’India di oggi, il business dell’utero in affitto, che il politicamente corretto chiama semplicemente “surrogacy”, alimentato perlopiù da ricchi indiani e coppie di occidentali che reclamano il diritto al figlio come la nuova frontiera dei diritti civili e della libertà. Anche a costo di sfruttare donne povere e poverissime che accettano di portare avanti una gravidanza su commissione per puro bisogno, a condizioni di tipo schiavistico, e spesso lasciandoci pure la pelle.
La storia di Phulmani è stata portata alla luce dall’organizzazione Shakti Vahini, una Ong che nella capitale Delhi ha finora salvato dallo sfruttamento un centinaio di ragazze provenienti come lei dalle zone rurali dello Jharkhand, una delle più povere del Paese.
«Mi hanno trattata come una macchina per fare soldi. Non hanno mai avuto interesse per quello che volevo, tutto quello che interessava loro era che facessi nascere i bambini», ha detto nell’intervista rilasciata al quotidiano indiano Hindustan Times. Phulmani, che non ha mai avuto la possibilità di conoscere la destinazione dei bambini o di rivederli, era stata attirata a Delhi con la promessa di un impiego da parte di un procacciatore attivo nel suo villaggio. Dopo avere lavorato per un anno come domestica, ha subito una sorte anche peggiore delle sue 10mila coetanee come lei in buona parte tribali o aborigene che ogni anno (secondo le stime dei gruppi per i diritti umani) vengono “esportate” dallo Jharkhand per servire nelle case di cittadini benestanti della capitale oppure nei suoi bordelli. Phulmani è diventata una macchina per fare figli (altrui).
In India, d’altra parte, dove la pratica dell’utero in affitto è legale dal 2002 e ci sono oltre mille cliniche della fertilità, il “bebè chiavi in mano”, con documenti in regola e tutele legali, costa solo 25mila euro. Negli Stati Uniti si arriva a 120mila, in Ucraina non meno di 40mila.
Di storie come quella di Phulmani ce ne sono tante. Il Child Welfare Committee (Comitato per il benessere dei bambini), un’agenzia governativa, ha portato alla luce il caso di una giovane del villaggio di Lotwadugdugi, attirata a Delhi dai trafficanti all’età di otto anni e che solo a 29 anni è tornare dalla famiglia, dopo avere dato alla luce dieci bambini commissionati da coppie non in grado di procreare e ottenuti con la tecnica dell’“utero in affitto”.
A sollevare il velo sul racket delle donne indiane è stato anche un rapporto del Centre for social research (Csr), una Ong con sede a Nuova Delhi, che dal 1983 si occupa di diritti delle donne. I casi abbondano: dai contratti stipulati con le coppie committenti ai venticinque cicli di fecondazione in vitro praticati su una stessa donna fino a donne che vanno oltre il limite (teorico) di massimo di tre gravidanze consentite per pratiche di utero in affitto. E a volte succede, come è accaduto il 16 maggio del 2012 in una clinica indiana della fertilità, che una di queste madri surrogate muoia. Premila Vaghela, trent’anni, sposata con due figli, è morta all’ottavo mese di una gravidanza su commissione.