“Su costi e qualità delle cure, l'Italia surclassa gli Stati Uniti: il costo è di 3mila dollari per persona contro i 9mila degli Stati Uniti e con risultati decisamente migliori perché, in media, curarsi in una struttura italiana è molto meglio che oltreoceano”. È l'analisi di Giuseppe Remuzzi, ordinario di Nefrologia all'università di Milano e direttore dell'Istituto Mario Negri di Bergamo, intervenuto alla 12a edizione del Festival dell'Economia organizzato dalla Provincia Autonoma di Trento.
Rispetto agli Stati Uniti, ad esempio, la partita è vinta a mani basse. Due i dati principali che lo dimostrano: la classifica di quanto si muore meno nel mondo grazie alle cure ricevute e quella della spesa per la sanità nei maggiori Paesi industrializzati. “Nella prima – spiega Remuzzi - l'Italia si colloca al secondo posto, con una spesa pro-capite poco inferiore al 9% del Pil (dato sotto la media Ue) mentre gli Usa sono in fondo alla classifica. Al contrario, Washington spende il 16% del proprio prodotto interno lordo.
Un motivo in più per diffidare da chi considera opportuno smantellare il sistema universalistico sul quale si fonda il Servizio Sanitario Italiano, introdotto nel 1978 sul modello concepito nel secondo dopoguerra dal Regno Unito.
“Il punto di forza del nostro sistema – ha spiegato Remuzzi – è di essere davvero solidale perché attraverso la fiscalità generale tutti pagano per tutti e ogni cittadino è sicuro di essere curato anche per malattie le cui cure possono costare anche vari milioni di euro”. Il sistema però ha un punto debole: “non siamo ancora riusciti a renderlo davvero sostenibile facendo in modo di garantire a tutti le cure per le quali c'è evidenza di efficacia evitando gli sprechi e le prestazioni inutili”.
“Abolire l'intramoenia”
La preoccupazione va, in particolare, a due elementi che rischiano di essere, nel medio periodo un ostacolo sulla strada di assicurare le cure adeguate a chiunque ne abbia bisogno: l'intramoenia e il prezzo esorbitante dei nuovi farmaci. “L'intramoenia (ovvero la libera professione che i medici, al di fuori dell'orario di lavoro, possono erogare nello stesso ospedale, ndr) è profondamente sbagliata e ingiusta perché, nella stessa struttura sanitaria, permette di fare un esame strumentale o una visita in pochi giorni se si può pagare di più allungando, al contrario, le liste d'attesa di chi quell'integrazione economica non può permettersela”.
C'è poi la questione dei nuovi medicinali, introdotti dalle case farmaceutiche nel corso del tempo in sostituzione di molecole più vecchie: prodotti che costano molto di più al Servizio Sanitario Nazionale, nonostante la loro efficacia, comparata con le medicine già in commercio, spesso non sia maggiore. “Si deve arrivare a subordinare l'introduzione di un nuovo farmaco sul mercato non solo al fatto che sia sicuro ed efficace ma che garantisca anche un valore aggiunto rispetto a quelli che già esistono. Purtroppo né Aifa né l'Agenzia Europea del Farmaco lo chiedono ma devono arrivare a farlo” osserva Remuzzi. “In caso contrario, dietro l'angolo c'è il rischio di default del SSN perché i farmaci nuovi sono costosissimi”. E con esso salterebbe in aria il diritto alla salute per tutti.