Viviamo in una società che diviene sempre più povera,
le risorse appaiono a rischio di catastrofica
estinzione, l’immaginario collettivo (e individuale)
è traumatizzato da una realtà saturante, intrisa di
precarietà, ma portatrice di modelli e modi di essere
fortemente adesivi perché, in quanto precostituiti, si
propongono come rassicuranti.
Modelli che vengono
somministrati seduttivamente, anticipando e riducendo
la possibilità della costruzione di un immaginario
soggettivo e transizionale, lungo un percorso di passaggi
e trasformazioni graduali, verso il raggiungimento
del necessario compromesso tra desiderio e realtà.
In questo contesto, il desiderio di generatività sembra “smarrirsi” in un tempo di esitazione che non trova sufficiente sostegno e protezione, poiché smarrite e non raccolte sono le emozioni che rimandano a un incontro con il proprio antico infantile.
La filiazione tocca profondamente la questione del femminile, che riguarda ogni persona, e il legame tra maschile e femminile nella coppia. Se nella coppia non c’è una sufficiente coniugazione tra tenerezza e passione, sarà arduo abbandonarsi alla necessaria regressione, alla propria vulnerabilità, luogo di cure che evocano inermità e totale dipendenza.
“Abbandonarsi” richiede la sicurezza di “ritrovarsi”. Il desiderio si ritirerà nella rinuncia, di fronte a un immaginario esigente e mortificato, e di fronte a una realtà esterna crudele e abbandonica.
Desiderio e paura del futuro si confondono indistintamente, sono persi i punti di riferimento per la paura di vivere senza aiuto. Può essere un’estrema, distorta misura di protezione verso un figlio non-nato?
La rinuncia, consapevole o no, è comunque luttuosa perché è la rinuncia all’espressione di una parte dell’umano che cercherà altre vie di continuità della vita e di creatività, che a volte sono sane e benefiche, mentre a volte prendono la via di scarica di una sofferenza impensabile. Sul quotidiano La Repubblica del 23 novembre 2011 compare un articolo dal titolo: “Il sorpasso del figlio unico”.
Riporta il dato Istat della maggioranza in Italia delle «famiglie verticali»: padre, madre e un solo figlio, «una metamorfosi di massa, dove il ritratto del figlio unico si polverizza e moltiplica per migliaia di figli unici, che in qualche modo poi diventano, anche, fratelli». Ma già dal 2007, in Francia, si segnalava un fenomeno più restrittivo. L’Institut national d’études démographiques prevedeva che entro il 2010 il modello familiare più diffuso sarebbe stato quello di una madre sola che alleva un figlio unico. Il numero di famiglie organizzate sul vecchio modello diminuisce e crescono le “nuove famiglie”: famiglie che non sono legate dal matrimonio, quelle in cui c’è un solo genitore, quelle ricostituite, quelle con partner dello stesso genere. Sono situazioni nuove che richiedono riflessione, nuove teorie e modelli di comprensione, oltre che la necessaria regolazione istituzionale.
Una ricerca sociologica
fatta in Spagna alcuni anni
fa ha comparato i dati
delle psicopatologie che
colpiscono giovani appartenenti
a famiglie tradizionali
con quelle che si manifestano
in giovani provenienti
da famiglie atipiche,
le “nuove famiglie”.
La conclusione, molto
semplice, è che tra configurazione
della famiglia e
“rischio” di psicopatologia
non c’è una significativa
correlazione. Ciò che
conta, invece, è la “qualità
delle relazioni” che si stabilisce
nel nucleo familiare.
È ciò che riscontro nella
mia pratica quotidiana
di psicoanalista, dove incontro
pazienti di varia
età portati da una sofferenza
sempre “singolare”,
ma accomunati da difficoltà
relazionali e da sentimenti
di povertà e minaccia
alla propria esistenza. Sono portati, soprattutto,
dalla mortificazione di sé
e dal non-nato, affinché
possano rivitalizzarsi e nascere
nell’incontro.
Questa
richiesta implicita di ricevere
attenzione, da parte
del paziente come dal
figlio che nasce, rivendica
la necessità di separatezza
e asimmetria tra analista e
paziente, così come tra genitore
e bambino.
Ogni figlio è “unico”, e
avvierà una relazione specifica
con l’ambiente psicofisico
che trova. E se vale
il concetto di Winnicott
in base a cui non esiste
“bambino senza la madre”,
i nuovi modelli che
si sono aggiunti alle teorie
psicoanalitiche classiche
ci dicono che il neonato
è dotato di una “competenza
relazionale propria”,
teso intenzionalmente
alla ricerca di un
contatto affettivo capace
di restituire organizzazione
e senso alle primitive
percezioni sensoriali.
Il
neonato è un vero e proprio
partner attivo nelle
interazioni con l’adulto:
ha la capacità di iniziare
l’interazione, di rispondere
se è l’adulto a impegnarlo
in un rapporto,
ma ha anche la capacità
di rifiutare l’interazione,
evitandola, se è proposta
in maniera non adeguata
alle sue capacità e alle sue
esigenze emozionali.
Il neonato nasce già socius
alla ricerca di appartenenza
affettivo-relazionale,
dotato di una primaria
potenzialità di incontrarsi
con altri, di avere quelle
relazioni che sole consentiranno
al suo “Io” di crescere
realmente.
La madre
che prepara la culla si
predispone come contenitore
mentale per raccogliere
i frutti delle esperienze
relazionali che costruiranno
insieme. Predisponendosi,
mette nella
culla anche quelli che
Faimberg chiama “fantasmi
nella nursery”: il Sé
adulto, nel momento in
cui fa un’esperienza genitoriale
è guidato dall’esperienza
del tipo di accudimento
ricevuto che viene
riattivato nelle relazioni
con i propri figli.
La Fraiberg
propone che queste
storie di “fantasmi nella
nursery” siano legate al destino
particolare cui possono
andare incontro gli
affetti infantili: quando si
ha un libero accesso alle
sofferenze del passato si
crea un potente deterrente
contro il rischio di una
ripetizione delle qualità
genitoriali, mentre l’isolamento
e la repressione di
tali sentimenti aprirebbe la strada a “l’identificazione
con l’aggressore”.
Sono stati compiuti
molti studi sull’ordine di
nascita e sulla posizione
del figlio unico, che mettono
in particolare evidenza
lo stereotipo di “personalità
narcisistica”, oscillante
tra sicura affermazione
di sé e passiva sottomissione.
Ma di quale narcisismo
si tratta? Se vogliamo
capire che posto può avere,
o che posto verrà assegnato
a un figlio, dobbiamo
chiederci quale sia lo
scenario (fantasmatico e
reale) in cui nasce, se e come
viene perseverato nel
tempo, senza trasformazioni,
nel “triangolo genitoriale”
da cui ha origine.
Quale fantasia di gravidanza
e di parto ha la madre,
come è compartecipata
nella coppia? Quale
rilevanza ha per la madre
il sesso del figlio, incontrato
nella realtà del suo corpo?
Perché un figlio resta
l’unico, e quando lo “sapranno”?
Come partner
in un gioco teatrale, i genitori
sogneranno quel
posto e con i figli lo rappresenteranno
nella realtà.
E potranno rappresentarlo
collusivamente e vischiosamente,
oppure
con la libertà di lasciarsi
reciprocamente modificare,
per far posto a nuove
nascite di sé, lasciando entrare
nuove funzioni, nuovi
personaggi, nuove e
complesse capacità di relazioni
affettive ed emozionali.
L’esperienza relazionale
diventa intrapsichica
e questa diventa relazionale,
seppure sempre in modo
oscillatorio, e con il
contributo di tutto il gruppo.
Dice un detto esquimese,
che «l’insieme dei
sogni in una notte nello
stesso igloo è considerato
come un solo discorso tenuto
dalla collettività attraverso
ciascuno dei suoi
membri».
Marco è un bambino di
10 anni. I genitori lavorano
insieme nella scuola di
tennis che il padre ha avviato,
dopo aver rinunciato
alla sua carriera di tennista.
È una “impresa familiare”
in cui lui è allenatore,
lei gestisce la contabilità.
La madre ha però
allentato la sua presenza
nella scuola da quando è
nata una seconda figlia,
Mara, che oggi ha due anni,
verso la quale Marco è
tollerante e protettivo,
sebbene lei sia un tipetto
invadente, incontenibile.
Portatore di un talento
innato, Marco è allievo
nella scuola del padre da
sempre, con risultati eccellenti.
Ma alle soglie di
una partita in cui è destinato
a essere “campioncino”,
si paralizza sul campo;
tremando, lascia cadere
la racchetta.
I genitori,
preoccupati per il suo cedimento,
si dichiarano
rassegnati a rinunciare, e
a lasciare Marco libero di
decidere se abbandonare
o meno l’agonismo, se
non fosse che Marco cede
anche nell’apprendimento
scolastico ed è un bambino
timido, vittima delle
angherie bullistiche dei
compagni, a cui non sa rispondere.
La timidezza di
Marco e il suo lamento di
vittima appaiono “caratteri”
tollerabili finché non
c’è il crollo, un’interruzione
che “impressiona” e
mobilita una richiesta di
aiuto la quale fa spazio alla
possibilità di dire qualcosa
dei “fatti”.
Il fatto è che, da quando
è nata Mara, il padre si
è spostato a dormire nella
stanza del figlio, e la madre,
invece, dorme nel lettone
con la bambina, che
dorme solo se abbracciata
a lei. Ma ci vorrà del tempo,
prima che i genitori lo
rivelino, come se svelassero
inconsapevolmente il
segreto vergognoso
dell’“uso” dei figli come
oggetto consolatorio, nella
confusione dei bisogni
tra adulto e bambino.
Padre
e madre dividono sé
stessi e i figli: Marco è ceduto
al padre, Mara è la
compagna della madre.
Realizzano così una configurazione
aggregata per
similarità di genere e per
indifferenziazione delle
generazioni.
Cosa mi “impressiona” di Marco, nell’interezza del nostro primo incontro? Marco, timidamente, sussurra sottovoce l’elenco delle angherie bullistiche. Mi devo avvicinare per capire ciò che dice, ma mentre mi accosto fisicamente “mi sposta” mentalmente: prende un foglio e disegna un grande pesce, gonfio ma piatto e solitario, da cui escono bollicine-fumetto che restano vuote. È immobile e senz’acqua attorno. Cosa mettiamo nei fumetti? Niente, il pesce è muto. Mi impressiona la capacità creativa con cui sa comunicarmi l’immaginario di un mondo diviso in due, in cui vedo una competenza a osservare come gli vanno le cose nella vita.
Da una parte, c’è il bullismo: la pretesa di superiorità e dominio con provocatoria arroganza e violenza, ma che contiene confusamente anche il bisogno di riconoscimento e affermazione del diritto alla vita. Dall’altra, c’è l’inermità, che non trova difese e protezione adeguate, ma che è anche attratta dal rifugio sicuro dell’immobile passività, per evitare dolorosi conflitti.
È una comunicazione da fare sottovoce, come capita a chi ha paura, perché sta “denunciando” un’organizzazione esterna, che è anche la propria interna. E questo avviene nell’incertezza tra tradimento e tentativo di salvezza, dimostrando che il cambiamento è sempre difficile da realizzare; avviene nel dubbio della slealtà verso un ideale che non si sa di chi sia.
Marco è “pesce fuor d’acqua” che non ha strumenti per fronteggiare ondate di sensazioni ed emozioni forti. Sensazioni da far tremare il corpo, sul campo da tennis, così come nel campo della vita. Senza un adeguato contenimento mentale, non trovano allenamento e capacità gestionale, cosicché restano zone mute, vuote di significato e conoscenza. E perciò devono essere totalmente espulse nel bullismo esterno.
È un modello di divisione
che si ripete con la nascita
della sorella, esibendo
a Marco, osservatore
partecipe e non neutrale,
lo scenario di una maternità
dormiente in un’unità
chiusa, mentre Mara è
sveglia e “bulletto” invasore
spadroneggiante. E tuttavia
invasore tollerato
dal fratello, da bravo bambino
primogenito che cerca
di guadagnarsi una
quota di utile nell’impresa
familiare. E quale sarà
stata la sua com-partecipazione
a quell’esperienza?
Ma la sorella-bulletto è
anche potenziale alleato,
perché gli offre il rispecchiamento
di qualcosa
che resta muto dentro di
sé, cioè il bisogno di libertà
d’esplorazione, che
con Mara si manifesta come
occupazione di territori
altrui.
“Complice” identificato
con questo elemento-invasore, ambigua
istanza di libertà, Marco
fa un gesto di sfida e occupa
la mente dei genitori,
con l’effetto di una bomba
che scoppia. Non bisogna
sottovalutare, infatti,
la potenza distruttiva del
“cedimento”, che colpisce
l’impresa familiare
ma anche lui stesso.
L’interruzione rende visibile
uno stato di crisi,
che esplode in un momento
di passaggio avvertito
da Marco (che si prepara
alla partita cruciale
del cambiamento pubertario),
come impasse indecidibile.
Marco si ferma, ma
si fermeranno anche i
suoi genitori, e con il tempo,
sarà possibile portare
ordine nella confusione
dei ruoli e prestare attenzione
a una sofferenza depressiva,
luttuosa e silente,
e a un modello relazionale
improntato alla discontinuità,
con insufficiente
attenzione alle conseguenze
emotive degli
eventi e degli scambi.
La sfida si compie con
un atto dimissionario che
sospende il destino di
eroe salvatore nel “sogno
dell’igloo”: e richiama tutto
il familiare a una revisione.
È un richiamo a
un’originaria mancanza,
come il grido del neonato.
L’atto di Marco è
un’autospogliazione rivelatrice:
“il re è nudo”, è
un sé-pesce a rischio di
asfissia. Mette a nudo l’impronta di un accudimento
psicofisico che non ha
dato una sufficiente “base
narcisistica” del valore di
sé, nella sua totalità e
nell’unità di corpo e mente,
nei talenti innati e in
quelli da far nascere.
Bloccato
e impedito dall’assenza
di speranza nell’aiuto a
revisionare l’impronta di
base, il bisogno di nutrimento
relazionale si intride
di protesta espulsiva e
piena di odio, e si mostra
in modo disperato.
Bion ci avverte che
«sentimenti di odio sono
diretti verso tutte le emozioni
e contro la realtà
esterna che li provoca. Il
passo è breve, dall’odio
verso le emozioni,
all’odio verso la vita stessa
».
E lo mostra bene un
film di Suzanne Bier del
2010, In un mondo migliore.
Siamo richiamati, però,
anche a considerare la necessità
dell’odio, come rimarcato
da Winnicott:
«L’odio è necessario affinché
il soggetto sia separabile
dall’oggetto altro da
sé, distrutto in fantasia e
costituito all’esterno dal
soggetto».
Ma ci vuole
qualcuno che si accorga
della qualità vitale
dell’odio, che aiuti ad allenarlo
e fermi il circolo di
una restituzione non trasformata,
che fomenta la
rappresaglia.
E se Mara non fosse nata?
L’esperienza della nascita
è implicita nel proprio
esser nati e nell’accudimento
psicofisico originario.
Registrata in un
“luogo interno” a cui tornare
e da ricercare, dove
si incontra l’immaginario
che l’insieme delle esperienze
ha raccolto, dà forma
a una sorta di preconcezione
della nascita, che
riunisce vulnerabilità e responsabilità
genitoriale, il
patto fondamentale con
la vita.
Ancora un altro
film viene in mente qui,
American Life di Sam Mendes
(2009), che rappresenta
il viaggio di una coppia
in attesa di un figlio, alla
ricerca di un posto per la
loro nuova vita. Metafora
di separazioni e incontri,
il viaggio riporterà al posto
delle origini: luogo di
calma, ma non isolato, scenario
di una attesa di vita
sostenibile, con speranza
di orizzonti aperti al futuro.
Se vogliamo ricorrere
agli autori “specializzati”,
Bion parla di preconcezione7
dell’esistenza dei fratelli,
idea innata in attesa
di una sua realizzazione.
Del resto, Marco non è
anche fratello a sé stesso
non-nato, in attesa di poter
vivere anche emozioni-squalo,
come la storia di
Caino e Abele insegna, se
li pensiamo come personaggi
interni necessari a
regolare l’amore e l’odio?
Se si riconoscono come
elementi contrastanti con
cui negoziare, con l’aiuto
di un padre e di una madre,
ingaggiati, di certo, a
un duro “lavoro”.
Il bambino è in vigile osservazione
dell’adulto,
con avido desiderio di conoscere
la verità della vita,
nei tempi e con i dosaggi
che la sua esperienza
ha reso digeribili. Vuole
sapere e avere contatto
con le emozioni e i sentimenti
autentici degli adulti,
osservando comportamenti
e toni, con curiosità
esplorativa. Domande
fondamentali diventano
via via più esplicite: «Chi
sono io, chi sono per voi,
chi siete per me? Mi riconoscete?».
Punta emergente di un insieme di interrogativi sul senso del vivere, per i quali non sempre ci sono le “parole per dirlo” in forma diretta.
Il bambino (e l’adolescente), tanto più privato di una mappa per esplorare, fa azioni parlanti, parla con il corpo, anche quando ha acquisito il linguaggio, evento che gradualmente lo renderà capace di dare dei nomi alle sue azioni e al suo “sentire”, con l’aiuto dell’ambiente.
Il bambino deprivato della base narcisistica del riconoscimento del suo bisogno relazionale e degli aggiornamenti della mappa è un bambino in balia di incantesimi che trasportano verso soluzioni magiche, che costruiscono la falsa illusione di poter essere tutto, coprendo la verità di sentirsi poco o niente.
Oppure, si ferma, per richiamare uno sguardo che veda l’autentico valore di cui è portatore, nella sua unicità e interezza. Ogni figlio nato porta il suo totale potenziale contributo creativo alla famiglia. I genitori hanno bisogno di qualcosa da parte di ogni figlio, qualcosa che è una creazione individuale del bambino. Mancando il riconoscimento di ciò, cito Winnicott, «i genitori perderanno coraggio e resteranno con una impalcatura familiare disabitata o falsamente viva, o in contrasto con le naturali forze emotive tendenti alla costruzione e all’integrazione».