Abolire l’attuale legge di finanziamento pubblico ai partiti, introdurre misure di controllo e di sanzione sui gruppi parlamentari e regionali, avviare interventi sul piano fiscale per i cittadini che vogliono dare un contributo all’attività politica.
È questa l’agenda Letta sul tema caldo dei contributi ai partiti. Un argomento che divide, tra lunghi elenchi di pro e contro che indicano la necessità di trovare una giusta via di mezzo. Un mese fa dieci senatori Pd (Andrea Marcucci, Rosa Maria Di Giorgi, Stefano Collina, Nadia Ginetti, Roberto Cociancich, Laura Cantini, Mauro Del Barba, Isabella De Monte, Stefano Lepri e Mario Morgoni) hanno depositato una proposta di legge per abolire il rimborso elettorale che eroga il finanziamento non sulla base delle spese effettivamente sostenute, ma in proporzione ai voti presi.
Ma all’interno del Partito democratico ci sono posizioni variegate: da un lato Bersani, Stumpo e altri che restano fermi sulla necessità di accedere ai finanziamenti pubblici per «non lasciare la politica in mano ai miliardari», magari trovando modalità più chiare e trasparenti; dall’altra Matteo Renzi che già durante le primarie si richiamava al referendum del 1993 (che decretò l’abolizione del finanziamento pubblico) e la necessità di sostenere le spese elettorali solo con contributi privati.
Contrario all’abolizione anche Sel, che però propone un tetto alle spese elettorali e la pubblicazione annuale dei bilanci e dei rimborsi di ciascun partito e di tutte le contribuzioni superiori ai 5 mila euro l'anno.
Le parole di Letta sono state «musica per le orecchie del Pdl», come ha commentato il vicepremier Angelino Alfano: Berlusconi e i suoi, infatti, sostengono la necessità di introdurre sistemi di incoraggiamento fiscale alle donazioni e al finanziamento privato, accompagnati da norme sulla trasparenza, spazzando via il sistema di sostegno pubblico. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Scelta Civica, con Monti che si è sempre dichiarato favorevole all’abolizione del finanziamento pubblico.
Abolizione tout court anche per il Movimento 5 stelle: Beppe Grillo ha fatto della lotta al finanziamento pubblico uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma, nonostante le promesse, allo stato attuale delle cose non può rendere indietro i soldi che gli spettano per legge, al massimo potrà utilizzarli per altro (come hanno fatto gli eletti grillini al consiglio regionale siciliano).
Favorevoli e contrari, ognuno con le sue ragioni: da un lato la necessità di non mettere i partiti in mano alle lobby, dall’altra l’indignazione per gli sprechi fatti con i soldi dei cittadini. Tutti d’accordo sul porre regole e paletti: del resto è quello che accade negli altri Paesi, dove rimborsi e finanziamenti pubblici avvengono regolarmente, ma per cifre più modeste. Una curiosità: secondo l’Institute for democracy and electoral assistance in tutto il mondo sono soltanto 55 gli Stati che non prevedono alcun contributo pubblico ai partiti, ma nella lista, che comprende realtà come la Bielorussia o il Senegal, non ci sono grandi democrazie.
Eleonora della Ratta
La storia del finanziamento pubblico ai partiti è una storia di scandali. Gli ultimi, che hanno riportato prepotentemente in agenda la legge sui contributi, sono sfociati nell’arresto di Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega, e del senatore Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita. Vicende intricate dove non si capisce fino in fondo chi è il truffatore e chi il truffato, accuse incrociate tra chi ha giocato con i soldi della cassa del partito, a sua volta derubato.
Insomma, truffe e imbrogli non sono più a favore del partito, come negli anni di tangentopoli, ma per il proprio tornaconto personale. Accusato di aver sottratto 25 milioni di fondi pubblici destinati alla Margherita, Luigi Lusi, arrestato nel 2012 e tutt’ora sotto processo e ai domiciliari, secondo i magistrati spendeva quei soldi per viaggi, pranzi, vacanze, ma anche per acquisti immobiliari o per rimpinguare i conti suoi, della moglie e delle società a lui collegate.
Il senatore si difende dicendo di aver pagato fatture false anche ad altri esponenti della Margherita, a chiunque ne facesse richiesta (a voce, perché «in politica non si lasciano tracce scritte», come ha dichiarato lo stesso ex senatore).
Una vicenda ancora da chiarire, ma che ha portato all’espulsione del senatore dal Pd. Una querela da parte di Francesco Rutelli e il primo voto palese nella storia repubblicana per una domanda di autorizzazione a procedere nei confronti di un parlamentare.
E pochi giorni fa è scattato l’arresto anche per Francesco Belsito, tesoriere della Lega dal 2007 al 2010, accusato di associazione per delinquere e truffa ai danni dello Stato e ora in cella a San Vittore. Al centro della questione 19 milioni di fondi pubblici ottenuti dalla Lega come rimborso elettorale e andati a finanziarie tutt’altro genere di spese, da cene a regali, vacanze e investimenti all’estero. Un terremoto che ha portato sì all’espulsione di Belsito dal suo partito, ma anche alle dimissioni di Umberto Bossi, visto che secondo l’accusa con quei soldi è stato comprato persino uno yacht da 2,5 milioni per Riccardo Bossi, il primogenito del senatur.
E alla lista si può aggiungere anche Franco Fiorito, quel Batman capogruppo Pdl in Regione Lazio che spostava i fondi regionali destinati al partito suoi conti bancari. Casi analoghi hanno scosso anche regioni insospettabili, come Piemonte ed Emilia Romagna.
Corruzione e scandali hanno accompagnato anche la nascita della legge Piccoli, nel 1974,che ha imposto il finanziamento pubblico ai partiti dopo vari vicende, da quella Trabucchi (che chiuse un occhio sui soldi che gli importatori di banane versavano ai partiti) a quella dell’Unione petrolifera, che rimpinguava le casse dei partiti in cambio di contributi statali. Un sistema di finanziamento pubblico e ufficiale avrebbe evitato fondi neri o una gestione della politica riservata ai più ricchi. Almeno queste erano le speranze del legislatore. Ma poi è arrivato il 1993 con Tangentopoli, il referendum sull’abolizione del finanziamento promosso dai Radicali (ottenne il 90,3% di voti favorevoli), una nuova legge che dava il via ai “rimborsi elettorali” (pari a 159 milioni nell’ultima tornata elettorale). E, nonostante ciò, riecco i casi Lusi e Belsito a far riaprire un dibattito mai sopito. Cambiano le leggi, ma non le cattive abitudini.
Eleonora Della Ratta
E se non fosse una buona idea? Anzi:e se abolire il finanziamento pubblico ai partiti fosse una cattiva, magari una pessima idea? Sì, lo so che nell’aprile del 1993 un referendum promosso dai radicali mostrò che il 90,3% dei votanti era favorevole all’abrogazione.
D’altra parte, si era all’indomani di Tangentopoli, quindi…E so ancor meglio che nel sentire comune dei cittadini il finanziamento pubblico è sinonimo di soldi rubati o spesi male o destinati a quel fiume di privilegi grandi e piccoli (dallo yacht alle abbuffate in pasticceria) di cui giornali e Tv hanno dato negli ultimi anni ampio e giustificato resoconto. Soldi comunque sottratti alle tasche della collettività per finanziare il comodo di pochi.
Però andiamo con ordine. Intanto, il fatto che qualcuno approfitti del sistema non significa, necessariamente, che il sistema sia da buttare. Molti evadono le tasse ma non per questo si chiede l’abolizione del fisco.
Ci fu un periodo in cui si andò in caccia dei falsi invalidi, ma nessuno pensò ad abolire sussidi e pensioni di invalidità. Conosciamo tutti automobilisti che passano col rosso, ma sarebbe un guaio radere al suolo i semafori.
Ed è un triste e disperato Paese quello che, per gettare l’acqua sporca, butta a terra anche il bambino. Secondo: finanziare i partiti solo attraverso una contribuzione privata significa, di fatto, consegnare la politica ai miliardari. Berlusconi, certo, ma non solo: chiunque sia molto ricco può crearsi e finanziarsi un partito. Con cui, naturalmente, proteggere quegli interessi concreti e individuali di cui i miliardari sono sempre portatori.
Qualcuno dirà: ma negli Usa è già successo che un miliardario s’improvvisasse politico senza per questo avere successo. Ross Perot, per esempio, che si candidò alla presidenza nel 1992 e nel 1996, due volte sconfitto da Bill Clinton. Il fatto è che negli Usa tutti i candidati alla presidenza sono miliardari o dispongono di fondi miliardari. E tra i membri del Congresso, che per il 40% sono miliardari pure loro, è considerato un titolo di straordinario valore riuscire a farsi eleggere contando solo sul (relativamente modesto) finanziamento pubblico.
Infine: non caschiamo nella trappola di credere che l’Italia sia il solo Paese che finanzia i partito con soldi pubblici. Nell’Europa meridionale, su 24 Paesi solo 2 negano qualunque forma di sostegno ai partiti, e sono Andorra e Malta. Nell’Europa del Nord, nessuno degli 11 Paesi nega un sostegno. Nell’Europa occidentale (12 Paesi) una sola nazione non prevede alcun tipo di finanziamento: la Svizzera. E nell’Europa dell’Est (12 Paesi), solo Belorussia, Moldavia e Ucraina lasciani i partiti senza fondi.
E’ senz’altro possibile, come ogni tanto ci capita di credere, che noi italiani la sappiamo più lunga di (quasi) tutti gli altri. Ma forse no, forse ci stiamo sbagliando. Forse ciò che fanno gli altri in grande maggioranza, cioè offrire un finanziamento pubblico ai partiti, è semplicemente la cosa giusta da fare. Sarebbe più saggio affrontare la questione da un altro punto di vista: per esempio, finanziare l’attività dei partiti politici in misura minore e, soprattutto, senza lasciare che l’accettabilità delle loro spese sia certificata solo… da loro stessi, ma da un’autorità superiore alle parti e ai loro interessi. Un limite e un controllo, insomma. Proprio le cose semplici e funzionali che i Paesi civili sanno mettere in atto senza grossi traumi. Sono i Paesi inefficienti e sospettosi quelli che preferiscono fare tabula rasa.
Fulvio Scaglione
I grillini in campagna elettorale l’avevano promesso. Ridursi lo stipendio da parlamentari tenendo per sé 2.500 euro netti al mese. Una somma che non tiene conto però di una voce consistente, ossia i 3.503 euro al mese di diaria per stare a Roma da cui vengono “scalati” 206 euro per ogni giorno di assenza dalle sedute in cui si svolgono votazioni in Aula. Basta comunque partecipare a meno di un terzo delle votazioni in una giornata per essere considerati presenti. Alla diaria, però, i parlamentari del Movimento 5 Stelle non hanno mai detto di voler rinunciare.
Chi ha deciso di fare il “grillino” fino in fondo è l’onorevole (ma guai a chiamarlo così!) Mario Sberna, 52 anni, bresciano e padre di 5 figli, eletto alla Camera nelle file di Scelta Civica.
Sabato, 27 aprile sul suo conto corrente, che ha messo online su http://www.mariosberna.it/?p=781, è stato accreditato il primo stipendio da deputato che comprende parte del mese di marzo e tutto il mese di aprile.
In totale, 18.925,77 euro. Per l’esattezza: 7.268, 53 euro a marzo e 11.657,24 ad aprile. Sberna ha trattenuto per sé 2.500 euro mensili, ovvero lo stipendio percepito prima che entrasse in politica quando era amministratore del seminario vescovile di Brescia e responsabile part time della cooperativa sociale Cauto, oltre alle spese vive sostenute per il soggiorno a Roma, variabili da mese a mese. «E che», spiega, «documenterò ogni volta».
Sberna è sposato con Egle, che lavora part time come operatrice socio-assistenziale al Comune di Brescia e prende circa 800 euro mensili. Hanno cinque figli: Daniele, 18 anni, Francesco, 23, Letizia, 15, Aurora, 10, e Emanuel, di 8, che è in affido.
«D’accordo con lei», precisa il deputato, «abbiamo deciso di trattenere dal totale dello stipendio, oltre ai 2.550 euro, altri 1.720 che corrispondono alla somma delle spese sostenute tra marzo e aprile per l'attività a Roma: due viaggi in auto andata e ritorno, 5 biglietti del treno Brescia-Roma (quando non avevo la tesserina parlamentare), l’acquisto di un computer portatile e i biglietti metro e bus, alimentazione e abbigliamento».
E il resto? Tutto in beneficenza. Tra i maggiori destinatari spicca l’Associazione nazionale famiglie numerose, di cui Sberna è stato fondatore e poi presidente prima dell’ingresso in politica, a cui ha devoluto 4.000 euro per aiutare alcune persone in difficoltà. Poi c’è Don Pedro José Conti, vescovo missionario in Amazzonia (1.500 euro), la Medicus Mundi Attrezzature, cooperativa sociale Onlus che realizza ospedali e posti di salute nel Sud del mondo (1.000 euro), più un altro contributo economico per permettere di acquistare un videoproiettore a due realtà sociali del bresciano, la coop San Vincenzo e la parrocchia San Giuseppe.
Una piccola somma, circa 200 euro, Sberna la tiene sempre in tasca, in monete da 2 euro, per darle a chi chiede la carità in strada. «A Roma ne incontro veramente tanti che dormono in strada», afferma, «è un fenomeno impressionante che aumenta a vista d’occhio».
Con il suo gesto, assicura Sberna, non intende fare demagogia. «Trovo giusto», spiega, «che la Camera paghi i viaggi dei parlamentari che vengono da fuori Roma. Però anche qui tutti i miei colleghi, fin da subito, potrebbero dare un segnale piccolo ma significativo: anziché viaggiare in prima classe si può tranquillamente andare in seconda».
«Non voglio mica passare come il buon samaritano», taglia corto, «è un segnale ma anche una scelta, mia e di tutta la mia famiglia, di voler continuare a fare la vita normale di prima.
Obiettivamente, uno stipendio così un po’ ti cambia le abitudini soprattutto per chi non ci è abituato ma noi preferiamo continuare ad andare avanti esattamente come prima».
Antonio Sanfrancesco
Le tabelle pubblicate alla fine del 2009 dal Collegio di controllo sulle spese elettorali della Corte dei Conti fanno venire i brividi. Vediamo qualche esempio. Per le politiche dell'aprile 2008 i partiti hanno spesso circa 110 milioni di euro ma ne hanno incassati dallo Stato 503. La differenza ammonta alla cifra astronomica di 392.966.623,71 euro. In percentuale, il 456% in più. Insomma, un affare.
Tanto che la magistratura contabile a pagina 179 della relazione scrive chiaramente: «Quello che viene normativamente definito contributo per il rimborso delle spese elettorali è, in realtà, un vero finanziamento». Tutto questo mentre nei quattro anni dalla crisi, ossia a partire dal 2008, la Banca d'Italia ha stimato una diminuzione del reddito delle famiglie del 6% e di quello degli individui del 7,5.
Scorrendo i dati della Corte dei Conti, dal 1994 a oggi è un crescendo rossiniano. Per le politiche del marzo 1994 i partiti spendono 36 milioni 264 mila euro e ne ricevono quasi 47. Alle europee del giugno successivo, la spesa è di 15 milioni e mezzo ma i rimborsi arrivano a 23 milioni e mezzo di euro. Alle regionali del 23 aprile 1995, i partiti spendono “soltanto” 7 milioni di euro ma ne ricevono la bellezza di 29 milioni 772 mila. Alle politiche del 13 maggio 2001 si tocca il record: a fronte di 49 milioni 659 mila euro spesi, nelle casse della politica arrivano 476 milioni 445 mila euro. Vale a dire: 426 milioni 785 mila euro in più. Cioè, il 959%.
La conclusione della Corte è chiara: «Dei 2.253.612.233 euro di rimborsi elettorali», scrivono i giudici, «i partiti hanno in realtà speso, per le campagne elettorali dal 1994 al 2008, circa un quarto. Ma la differenza si è accentuata con l’aumentare degli importi del rimborso. Le ultime elezioni, quelle 2008, sono costate ai partiti 110 milioni di euro di campagne elettorali, ma allo Stato sono costate cinque volte di più in rimborsi».
Da notare, inoltre, che a fronte di uno Stato generosissimo, i partiti di tornata in tornata aumentano le spese sostenute. Come mai, ad esempio, per le regionali del 23 aprile 1995 la politica spende 7 milioni di euro che diventano 28 milioni 673 mila per quelle del 2000 e quasi 62 milioni per quelle del 2005?
Antonio Sanfrancesco
In Gran Bretagna i partiti che ricevono finanziamenti pubblici (10 milioni di sterline nel 2010, pari a circa 12 milioni di euro) sono solo quelli che perdono le elezioni e vanno all'opposizione, e sono quindi più svantaggiati nel raccogliere contributi da lobby o gruppi industriali.
In Germania invece, con buona pace del diritto alla privacy, tutte le fondazioni sono tenute alla massima trasparenza. E in Italia? I “pensatoi”, a destra come a sinistra, non sono «obbligati a tenere una contabilità ufficiale delle erogazioni». Poco incoraggiante se consideriamo l'allarme lanciato dalla Corte dei Conti che ha spiegato che la corruzione, dal 2009 al 2010, è aumentata del 229%.
In Francia, il finanziamento pubblico dei partiti vale il 35,8% dei loro bilanci. In Italia, oltre il 90.
Ancora: al contribuente americano i partiti costano 12 centesimi; a quello francese 1,25 euro; a quello tedesco 1,60; a quello spagnolo 2,58; a quello italiano 5,70.
Antonio Sanfrancesco
Ma gli italiani, nel 1993, dopo lo scandalo di Tangentopoli non avevano detto no al finanziamento pubblico ai partiti? Sì, essendo però il referendum abrogativo, spiegano i costituzionalisti, venne abolita la normativa precedente e si creò un vuoto. Subito riempito dal Parlamento che otto mesi dopo il referendum, a dicembre, con la Legge 515 aggiorna la normativa precedente e istituisce il “contributo per le spese elettorali”.
Le nuove regole vengono applicate per le elezioni politiche del 27 marzo 1994 e per l'intera legislatura ai partiti arrivano 47 milioni di euro, erogati in un'unica soluzione. La politica, insomma, si riprende con gli interessi quello che momentaneamente aveva perso.
Nel 1999 con la Legge 157 viene reintrodotto a tutti gli effetti il finanziamento pubblico bocciato dagli italiani. Il rimborso elettorale previsto non ha infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali.
La legge 157 prevede cinque fondi: per le elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, per le Regionali e i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa (l’erogazione viene interrotta in caso di fine anticipata della legislatura).
La legge entra in vigore con le elezioni politiche del 2001. Nel 2002, la Legge 156 trasforma in annuale il fondo e abbassa dal 4 all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa passa da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.
Antonio Sanfrancesco
Follow the money, segui i soldi! Era la frase che permise ai due giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein di scoperchiare quello che passò alla storia come lo scandalo Watergate.
In quest’Italia un tantino più dozzinale - in lumbard diremmo un “zichinin” – non sono solo i giornalisti a sognare qualche “gola profonda”che esorti a seguire i soldi. Anzi, a pensarci bene, sono proprio i politici a dimostrarsi talvolta più abili nel correre dietro al denaro. Anche se il fine è ben diverso: non si tratta di braccare il profumo dei soldi per azzannare e scoprire la verità, ma di accodarsi a monete, banconote, denari, assegni, conti correnti.
E da lì per li rami si scende poi verso titoli azionari, obbligazioni, valute, fondi comuni, e altro ancora, mazzette!, alfine, semplicemente per prendersi tutto il “cucuzzaro”. E qui, ci perdoni la Lega Nord per l’uso di un sostantivo così romanesco, ma è che proprio a Roma ladrona che si va a finire, quando si è politici, se si seguono i soldi. Roma: ladrona sì, ma anche parecchio accogliente. Con tutti, anche con quelli che la odiano (ma sarà poi così vero? Al massimo un po’ d’invidia, immaginiamo). E dunque, alla fine della corsa, anche la Lega Nord, i nuovi barbari, quelli che scendevano dal Po per fare strage di corrotti e corruttori, e che in aula mostravano il cappio, sì, insomma, proprio loro, i lumbard, ci hanno preso gusto. E, allora vai coi rimborsi elettorali, vai coi soldi!
E non solo. Diamanti? Perché no? E lo yacht, lo vuoi escludere? No, no; e la laurea, vuoi mettere? Beh, già che ci siamo, investiamo in Tanzania che se Borghezio deodora i vagoni degli immigrati neri pecunia non olet. Come spesso accade, infatti, sono proprio i più terribili censori, i vandeani della moralità, i puri più puri degli altri puri, che alla fine sbracano di brutto nel Paese dove tutto è concesso.
Perché in Italia c’è una frasetta che fa da passepartout: e così “tengo famiglia” si trasforma da un lato nel piede di porco che scardina ogni cassaforte etica, dall’altro in una cambiale da onorare, con mogli e figli, nipoti e zii, cugini e, ahinoi, anche amanti. Ora, lungi da noi l’idea di assolvere qualcuno, ma resta pur vero che quei politici tanto ladrones appaiano quasi come pudiche educande al cospetto di personaggi come Francesco Belsito, tesoriere della Lega Nord. Ed è chiaro che se il tesoriere lo fa uno come lui, poi non potete neanche stupirvi troppo se uno dei figli del capo si fa la laurea farlocca e l’altro lo yacht a pochi chilometri da Hammamet.
Hammamet, che nome gentile, sembra un soffio di primavera. Invece, fa da rifugio a un politico, anzi, il principale politico d’Italia, che da Roma fugge inseguito dalla legge. Fu proprio in quei giorni che i leghisti mostrarono il cappio ai “colleghi” parlamentari. Certo, nella vita non si può mai sapere, ma oggi molti padani duri e puri sono sconcertati e anche un po’ tristi: pensare che anche la Lega sia “uguale” agli altri è davvero un controsenso apparente.
S’inventano una regione che non esiste, la Padania, per rimarcare una diversità anche etnica e poi, come i ladroni di Roma, peccano allo stesso modo. Anzi no, pure peggio. E hai voglia a mostrare sul palco del comizio i diamanti, come fece poco tempo fa Roberto Maroni: “Ecco i diamanti di Belsito, li daremo alle sezioni più meritevoli”. È il contrappasso della Storia. Cornelia, orgogliosa, diceva: “Ecco i miei gioielli”, indicando i figli. Sì, certo, lei era romana, che ne può sapere la “sora” Cornelia delle cose di oggi? E ora, dopo i diamanti, lo yacht. A chi lo darà, il Maroni? A quale sezione marinara, o lacustre, o anche fluviale, purché meritevole, lo assegnerà? Organizzerà una riffa?
D’altra parte perché stupirsi? Quella delle imbarcazioni è un’idea fissa della Lega Nord, che si tratti di navigare il Po per raggiungere Venezia, o di imbarcare su un battello iscrivendosi al sindacato padano, o di fare un incerto e tremebondo bagnetto come Umberto Bossi al mare, alla fine sempre con l’acqua si finisce. Che dovrebbe lavare ogni sporcizia, in teoria. Oppure, riesce a far riemergere e galleggiare ogni porcheria. Potenza della natura! Hai voluto prenderla in giro con ampolle alla fonte di stravaganti divinità mai contemplate prima d’ora?
E, allora, come si dice a Roma, beccate questa! Triste vicenda che non solo accomuna la Lega “diversa” ai partiti così tutti uguali in un inciucione del pubblico denaro che lascia senza fiato, ma anzi, di più, li distingue ancora una volta per rapacità creativa senza più confini. Proprio quelli che vorrebbero i leghisti a ogni sospirar di foglie che non siano alpine. Tentarono anche con le banche: se lo fanno gli altri, perché noi no?, si saranno detti. Uno sfacelo: in finanza e in economia non sembrano molto ferrati quando si esce dal conteggio primitivo del 2+2 uguale quattro.
Sopra detti calcoli, si entra in un mondo a parte, che solo i pochi eletti, quelli sì per davvero chiusi in un cerchio magico, sapevano come risolvere. Peccato che alla fine i nodi vengano al pettine, e qui lo diciamo con dispiacere sincero. Perché anche chi leghista non è mai stato avrebbe avuto piacere nello scoprire che almeno un partito, proprio quello più intransigente, era per davvero quello che diceva di essere. Però, va anche detto che i comportamenti sono lineari.
Anche senza ascendere alle teste fini del partito, in quella terra chiamata Padania, da che mondo è mondo, prima ci si lamenta perché mancano i soldi, poi però ci si vanta di essere è la striscia d’Italia più ricca in assoluto. Perché il metodo leghista in economia, alla fine si rivela uguale a quello del resto del Paese: chiagni e fotti!