Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù
Cari
fratelli e sorelle. Nella cupola di questa bellissima Cattedrale è
rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce.
L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando
questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la
trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del
giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del
giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché
Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato
il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per
mezzo di lui» (Gv 3,17).
Nella
luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in
adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo
parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in
Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di
Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella
frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo
addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua
trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il
nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi
dite che io sia?» (Mt 16,15).
Guardando
il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di
un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla
morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri
fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel
volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore»,
come diceva sant’Anselmo, il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola –
diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non
potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non
accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo
cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno
parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.
Non voglio qui disegnare in
astratto un «nuovo umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma
presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello
dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni
provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende
capaci di vivere e di prendere decisioni.
Quali
sono questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.
Il
primo sentimento è l’umiltà.
«Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso»
(Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla del fatto
che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui
c’è un messaggio preciso. L’ossessione
di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non
deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio,
e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà
della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende
sempre.
Un
altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno
non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede
ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità
di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è
narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto
soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per
favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione,
nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui
ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).
Il nostro dovere è lavorare per
rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è
rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo
seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il
Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che
trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.
Un
ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine. Il cristiano
è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci
indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla
felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che
sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la
beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più
umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi
conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si
possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e
mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle
proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella
misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.
Le
beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano
con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza
possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto
viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo,
sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere
«beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è
necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa,
fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel
tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il
Signore» (Sal 34,9)!
Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i
tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo
cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono
qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme
in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere
ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere
utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i
sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa
essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una
Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le
beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette
di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non
mente.
Una
Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è
una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura,
nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto
ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per
essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e
la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa
preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di
ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).
Però
sappiamo che le tentazioni esistono, le tentazioni da affrontare sono tante. Ve
ne presento almeno due. Questo non sarà un elenco di tentazioni come quelle 15
che ho detto alla curia.
La prima di esse è quella pelagiana. Essa
spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con
l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle
strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte.
Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività.
La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un
orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del
soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile
cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di
condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere
significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di
generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare.
Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la
dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.
La
riforma della Chiesa– e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal
pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le
strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi
condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.
La
Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte,
inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle
navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati
dalle frontiere e dalle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del
presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa (2 volte). E,
incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi
sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto
per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa
porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la
tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di
«una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una
determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene
possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane
chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii
gaudium, 94). Lo gnosticismo non porta…
La
differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo
gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non
condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere
nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono
sterile il suo dinamismo.
La
Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la
fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri.
Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che
fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera
di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don
Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi
parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e
sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere
un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo
contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da
nessuna parte.
Ma
allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo
il Papa?
Spetta
a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad
alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle
nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è
rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo
verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua
gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?
Possiamo
immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e
alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre
mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del
mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi
avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt
25,34-36).
Ma
potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno,
preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi
avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero
straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in
carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).
Due
pilastri: le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio
universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono
poche parole, semplici, ma pratiche. Che il Signore ci dia la grazia di capire
questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù
e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt
11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo
mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di
Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la
sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33).
Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè
noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).
Ai
vescovi chiedo di essere pastori, non di più, pastori: sia questa la vostra
gioia: sono pastore. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente
ho letto su un giornale di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora
di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano
per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non
cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi
un vescovo, è la sua gente.
Che
niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come
pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo,
morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di
più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio
ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia
preoccupazione pastorale nella esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr
nn. 111-134).
A
tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione:
l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di
Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel
vostro Paese, cercando il bene comune.
L’opzione
per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità
cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» ce lo ricordava Giovanni
Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella
fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci
mediante la sua povertà» diceva papa Benedetto XVI, Discorso alla Sessione
inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei
Caraibi). I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per
esperienza conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in
loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere
loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa
sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).
Che
Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di
denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di
speranza.
Siamo
qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata
messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio.
Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di
bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme
ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando
l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco,
dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi
abbiamo l’altra metà perché la Chiesa madre, la Chiesa madre ha, in Italia, l’altra
metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati,
oppressi, affaticati. E questo da sempre. È una delle vostre virtù perché ben
sapete che il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né
per molti, ma per tutti.
Vi
raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro.
Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta”
della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per
tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle
soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel
conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che così sia.
E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il
conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo» (Evangelii gaudium, 227).
Ma
dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli
l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale,
intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del
dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile.
Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del
celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non
recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva.
La
società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali
possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica,
quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica,
quella politica, quella dei media... La Chiesa sia fermento di dialogo, di
incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono
frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze
differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e
la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.
Ricordatevi
inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere,
il modo migliore, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di
fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno
buona volontà.
E
senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo.
Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in
fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle
nostre pur autentiche certezze.
Ma
la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che
emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del
contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I
credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e
cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e
proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente
costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano,
incluse le appartenenze politiche o religiose.
Faccio
appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», come scriveva
l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la
vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr
1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro
per una Italia migliore. Per favore non guardate dal balcone la vita, ma
impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della
vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città
costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete
liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le
trasformazioni.
Si
può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento
d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi
a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di
vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e
all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi:
tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9).
Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi,
ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né
frontiere, ma piazze e ospedali da campo.
***
E
una parola molto importante, mancano soltanto due cartelle. Mi piace una Chiesa
italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli
imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende,
accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa,
innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma
radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni
essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad
abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e
l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.
Sebbene
non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di
lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni
parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni Regione, cercate
di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per
trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, soprattutto
sulle tre quattro priorità che avete individuato in questo convegno. Sono
sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per
concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta,
antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate
creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a
Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del
cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma
della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.
Vi
affido a Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”.
Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –,
l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci
siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria.