L'esploratore e documentarista Folco Quilici.
Solo una giornata balorda (pioggia tiepida,
cielo basso e grigio, umidità tropicale)
tiene fermo Folco Quilici. «Oggi
non posso filmare», dice al telefono,
«passa pure in ufficio a trovarmi». Il suo
ufficio, nel quartiere romano di Prati, è ordinato
e colmo di libri, vecchie guide turistiche,
fotografie, carte geografiche. Una grande
mappa appesa alla parete di fronte alla
scrivania mostra il Lazio e i luoghi dove sta girando
un film sulle vie dei pellegrini. Il grande
documentarista, esploratore e scrittore ha
compiuto in aprile ottant’anni, ma il suo lavoro
non conosce soste.
Come si sente a ottant’anni?
«Bene. Sono stato peggio prima di compierli,
quando dei ladri mi hanno buttato per terra
in mezzo alla strada, nel cuore di Roma.
Una brutta botta, un braccio rotto, una spalla
lesionata. Dopo ero a pezzi, mi sembrava
di averne 190, di anni. Ma poi sono guarito
perfettamente e ho ripreso in pieno a lavorare.
Il segreto è non fermarsi mai, stare in
guardia. In fondo, sono arrivato a questa età
pur non essendo assistito da una salute di ferro.
Nei primi viaggi in Africa mi presi tutte le
malattie tropicali, malaria compresa, e le cure
mi hannomassacrato il fegato. Sono caduto
con un elicottero, ho avuto qualche problema
al cuore. Ne ho passate tante, ma non mi
fermo. Ieri sono uscito alle 7 del mattino e sono
rientrato a casa dopo 12 ore di lavoro».
A che cosa sta lavorando in questi giorni?
«Intanto, sto completando un libro al quale
lavoro da due anni. È un romanzo storico
ispirato da una vicenda vera, legata alla presenza
dei cosacchi in Italia, alla fine della Seconda
guerra mondiale. Per scriverlo ho pescato
nei miei ricordi e in numerosi documenti.
Poi ho terminato il film documentario
Tobruk 1940, che aggiunge informazioni
rispetto al libro in cui avevo raccontato l’ultimo
volo del gerarca Italo Balbo sull’aereo a
bordo del quale c’era anche mio padre Nello.
È ricco di filmati d’epoca, che ho cercato con
pazienza, restaurato e montato in studio».
E intanto gira per le vie dei pellegrini...
«Sto realizzando un film di un’ora lungo le
vie dei pellegrinaggi del Lazio. La via Appia,
la Cassia-Francigena e la via Francescana
che, in gran parte, segue il percorso della Salaria.
È poco conosciuta ma è molto stimolante,
legata ai conventi frequentati da san Francesco
nell’odierna provincia di Rieti».
Che cosa ha scoperto?
«La bellezza del Lazio, una Regione i cui tesori
sono messi in ombra da Roma. Poi mi sono
reso conto che non è la strada che fa il pellegrino,
ma viceversa. I pellegrini seguono i
percorsi tradizionali, ma a volte prendono
scorciatoie. Il pellegrino ha una grande fantasia
e nel suo cammino riesce sempre a fare incontri
belli e interessanti che lasciano un segno,
anche in chi non è credente».
Altri progetti?
«Un altro film, sempre nel Lazio. Spero di
realizzarlo l’anno prossimo nella Pianura
pontina, una zona stupenda piena di testimonianze
storiche, bellezze naturali e progetti
urbanistici molto interessanti. Sono le coste
lungo le quali gli archeologi stanno rintracciando
i resti degli sbarchi dei popoli provenienti
dall’Oriente mediterraneo, prima della
nascita di Roma. Davvero affascinante».
È tempo di vacanze: un grande viaggiatore
come lei che consigli darebbe a chi parte?
«Dipende. Una famiglia con bambini vada
a divertirsi, al mare o in montagna. I bambini
comandano, lo so bene avendo dei nipotini.
Chi ha più libertà si faccia un bel viaggio
in California, in Giappone o magari in Vietnam,
un Paese molto bello, oggi anche molto
accessibile e non troppo costoso».
In Italia quali sono i suoi luoghi del cuore?
«Tanti. Di sicuro le isole: Ponza, Pantelleria,
le Egadi, soprattutto Marettimo, con le
sue riserve naturali e le grotte che ho fatto scoprire
ai miei nipoti. Sono rimasti entusiasti».
Il mare resta il primo amore?
«Direi di sì, ma in genere amo la natura,
montagna compresa. Mare e montagna sono
sempre stati una miniera di fatti storici, leggende,
miti. Ma il mare, con il suo fondo
sommerso, scatena la fantasia».
Non le fa tristezza quel mare nero di petrolio
al largo delle coste americane?
«No, mi fa rabbia. Rabbia per la nostra ipocrisia.
Strilliamo tanto, ma intanto intasiamo
le strade di automobili. Siamo noi a spingere
la ricerca di petrolio lì e altrove».
È sempre convinto che il saper viaggiare
dovrebbe essere una materia scolastica?
«Sì, ma prima insegniamo bene la geografia,
che invece è sempre più trascurata. Studiarla
significa avere gli occhi aperti sul mondo,
conoscere i popoli. È un antidoto al razzismo
e a tutti i pregiudizi che circondano gli
stranieri, gli immigrati, i diversi. Vorrei sapere
quanti italiani saprebbero indicarmi correttamente,
non dico il Senegal, ma la Romania
sulla carta geografica».
La globalizzazione ci ha portato in casa il
mondo: c’è ancora qualcosa da esplorare?
«Come no. E a volte non bisogna neppure
fare tanta strada. Qui accanto al mio ufficio
c’è l’unica chiesa in stile liberty di Roma.
Non la conosce nessuno. Ci sono entrato e
l’ho trovata bellissima».