«L’Italia è un Paese che non aiuta, anzi scoraggia gli imprenditori, con governi precari e un sistema bancario in difficoltà». È questa una delle cause che secondo Marco Fortis, economista e vicepresidente di Edison, spinge i nomi del made in Italy a concedersi ai Francesi: «Nel settore del lusso non abbiamo grandi gruppi delle dimensioni di Arnaud o Kering, anche imprese come Tod’s o Prada dovrebbero fondersi insieme per riuscire a fare acquisti tanto importanti. E, dall’altra parte, aziende che sono arrivate all’apice della loro crescita, come Loro Piana, devono entrare a far parte di questi grandi gruppi per espandersi ancora e riuscire a conquistare nuovi mercati».
Le acquisizioni straniere impoveriscono l’economia italiana?
«I
Francesi, soprattutto negli ultimi anni, sono molto attivi
nell’acquisto di nomi del lusso italiano, ma permettono al nostro Paese
di avere ricchezza con stabilimenti che restano al loro posto e, spesso,
una gestione che rimane in mani italiane, così come all’Italia vanno
stipendi e tasse. Gucci ne è un esempio: la produzione della pelletteria
è rimasta in Toscana e il gruppo della famiglia Pinault fa della
tracciabilità un punto di principio, proprio perché la qualità è la
caratteristica fondamentale per vendere questi simboli del made in
Italy. Certo, i Francesi possono farlo perché possono contare non solo
su gruppi di dimensioni enormi e famiglie dagli immensi patrimoni, ma
anche su una politica e un sistema finanziario che sostiene questo tipo
di operazioni. Gli imprenditori italiani, invece, si trovano a pagare
l’Imu sui capannoni, l’Irap e hanno la minaccia della Tares: qualcuno
magari si stufa e decide di far entrare gli stranieri in azienda per
avere spalle più larghe per sostenere una situazione non facile».
Quanto incidono su queste operazioni le liti di famiglia, in gruppi dove il brand viene portato avanti ormai da generazioni?
«Non
possiamo generalizzare, ogni caso è diverso dall’altro. Nel caso di
Bulgari e Loro Piana, per esempio, ci sono state valorizzazioni di
altissimo livello, con cifre in gioco notevoli e famiglie che, con
queste operazioni, hanno valorizzato le aziende che avevano,
mantenendone la gestione e una quota di minoranza. Per le forze che
avevano non sarebbero potute crescere di più, da sole. Poi c’è il caso
Giorgio Armani, dove il fondatore è un leader forte che non ne vuole
sapere di mollare la presa e va avanti o un gruppo piccolo, come
Cucinelli, giovane e nel pieno dell’ascesa. Il pericolo può arrivare in
casi come Esselunga, dove le liti familiari non si sa a quali scelte
possono portare in un settore, come la Grande distribuzione organizzata,
ormai tutta in mano a francesi e tedeschi, facendo eccezione per le
cooperative che però non portano avanti una politica internazionale.
Eppure la Gdo è importante per l’Italia perché permetterebbe di far
conoscere meglio i nostri prodotti all’estero, come sta facendo Giovanni
Rana negli Stati Uniti o Eatitaly».
La politica industriale del Paese quali settori dovrebbe salvaguardare?
«La
meccanica, spina dorsale dell’Italia, al di là dell’iconografia che fa
di moda e alimentare i settori di punta. In questo settore i gruppi sono
più piccoli e molto specialistici, in mano a famiglie giovani, e dove
quello che conta sul mercato è la tecnologia, mentre sul consumatore
finale non pesa l’appeal del nome. I settori strategici da tutelare sono
proprio quelli della Finmeccanica, perché incidono sulla difesa,
l’aerospaziale, i satelliti, così come deve essere sostenuta Fincantieri
che produce le navi da crociera più belle del mondo. Possiamo invece
stare tranquilli nel campo dell’energia, perché Enel ed Eni sono gruppi
davvero grandi. È importante, però, che ci sia un minimo di visione a
lungo termine nella politica industriale italiana».