Un cartello all’ingresso della
casa romana di Franca Valeri
avvisa di “fare attenzione
a Roro”. La porta si apre
ed ecco comparire con lei il
temibile Roro, un cagnolino
che inizia a scodinzolare
per il salotto. Mentre la padrona
di casa ci invita ad accomodarci
su un divano, ne notiamo uno più
piccolo, con i braccioli alla rinfusa. «È
quello di Roro. Lo usa solo come trampolino
per saltare sul divano più grande.
Ha 7 anni, come la mia nipotina,
quella pazzerella di Lavinia».
E così, con Roro che si impossessa
subito del nostro taccuino, iniziamo a
parlare del ritorno in Tv di questa signora
di 95 anni che ci onoriamo di conoscere.
«Onoriamo, che parola grossa,
suvvia», ci rintuzza subito. Con il suo amico Pino Strabioli che le siede accanto,
su Rai 3 ogni domenica racconta
a Colpo di scena, insieme alle testimonianze
dei loro figli, sette grandi nomi
dello spettacolo che lei ha conosciuto
bene, da Vittorio Gassman a Mina.
È contenta di essere tornata in Tv?
«Sì, ho fatto una vera scorpacciata.
Sono persino andata da Maurizio Costanzo.
Il programma che sto facendo
con Pino è proprio bello e io mi diverto».
Tra tutti i personaggi che ricorda,
a chi era più legata?
«Gassman era un amico come
Manfredi, Tognazzi lo ammiravo molto
e poi Jannacci che ha portato in Tv
un atto unico scritto da me, La cosiddetta
danzata. Solo lui poteva farlo,
così milanese come me».
E Mina, con cui avete fatto tanti
Studio Uno in Tv? Vi sentite ancora?
«No, ma lei, quando scrive sui giornali,
appena può mi ricorda con affetto
e lo stesso faccio io».
Lei ha scritto e recitato mille personaggi.
È sempre stata così creativa?
«Direi di sì, anche se da bambina
per lo più facevo imitazioni, cosa che
in seguito ho depennato totalmente.
Imitavo maestri, parenti e le amiche
delle mamma».
E loro come reagivano?
«Non glielo facevo sapere».
Ha avuto un’infanzia felice?
«Felicissima. Ho avuto due genitori
che hanno sempre dato un’importanza
fondamentale all’educazione
mia e di mio fratello: ricordo la maestra
di francese e quella di pianoforte
che venivano a casa a darci lezione».
Suo padre era ebreo. Nel 1938,
quando lei aveva 18 anni, furono approvate
le leggi razziali. Come viveste
quel periodo?
«Fu terribile. Quando scoppiò la
guerra lui e mio fratello fuggirono in
Svizzera. Mia madre era cattolica e per
questo si sentiva al sicuro. Così restai
a Milano con lei. In realtà, quando iniziarono
i rastrellamenti dei tedeschi
nessuno badò a queste cose. Noi fummo
fortunate. Ma ricordo amici di papà,
uomini colti e raffinati, e parenti con
cui andavamo al mare, tutti scaraventati in un treno. Ricordo i loro sguardi
smarriti. Non tornarono mai più. Ancora
adesso mi sembra incredibile che sia
potuto succedere».
Qual era il suo stato d’animo?
«Quando i nazisti hanno preso Parigi
è stato davvero angosciante. Ma
subito dopo ho pensato: “Da lì ve ne
andrete”. Sono sempre stata sicurissima
che alla fine avrebbero perso».
Cosa le dava questa sicurezza?
«Il mio naturale ottimismo. E
poi era giusto, era giusto che quella
gente nisse male!».
Lei cioè crede nell’esistenza di
una giustizia superiore che governa
le nostre vicende?
«È così».
Da poco abbiamo festeggiato i 70
anni della Repubblica. In quell’occasione
milioni di donne come lei votarono
per la prima volta. Che ricordo
ha di quel giorno?
«Forse la deluderò perché lei si
aspetterà che io le dica che fu un giorno
speciale, ma io non lo vissi così. Mi
sembrava così normale che ciò avvenisse,
anche perché tante donne avevano
partecipato alla lotta partigiana. Piuttosto
restai molto colpita dal fatto che di
colpo tutti erano diventati antifascisti».
Dopo la guerra si trasferì da Milano
a Roma per fare l’attrice, ma fu
bocciata all’Accademia d’arte drammatica.
Fu una decisione giusta?
«No, sarei stata una brava allieva. Ai
miei comunque dissi che mi avevano
presa e la cugina di mio padre che mi
ospitava mi resse il gioco. Così ho iniziato
a fare i miei primi lavori a teatro».
Pochi anni dopo, nel 1952, recitò
la parte della signorina snob in Totò
a colori. Quando si rivolgeva a lui, lo
chiamava principe?
«Gli altri sì, perché lui ci teneva. Io
cercavo di non chiamarlo. Comunque
con me fu sempre molto simpatico.
Parlavamo soprattutto di una passione
che ci univa: i cani».
Un altro film memorabile fu Il vedovo,
in cui lei era la moglie che vessava
il povero Alberto Sordi. Quando
è morto, sul Corriere della Sera lei ha
fatto pubblicare questo epitafo:
“Ciao, Cretinetti”, il nomignolo che gli
affibbiò nel film. Lo inventò lei?
«Sì, mi venne spontaneo chiamarlo
così. E anche a lui ogni tanto
veniva qualche battuta fuori
copione. Ma entrambi abbiamo
sempre preteso di lavorare su sceneggiature
solidissime».
Non ha girato tantissimi film.
Perché?
«Se mi capitava di dover ritardare
l’inizio di un nuovo lavoro in
teatro a causa di un film ero furibonda. Il teatro è sempre stata la mia grande
passione».
Le pesa molto non andare più in scena?
«Sì, perché potrei farlo ancora. E d’altra
parte vedo in giro cose orribili».
Di recente ha pubblicato un libro sulla
vecchiaia, La vacanza dei superstiti. In che
senso la vecchiaia è una vacanza?
«Arrivare alla mia età è come ricevere
un premio, non so da chi, forse da Dio. Vivere
mi piace ancora moltissimo. Non ho
affatto voglia di andarmene».
Lei vive qui sola. Non le pesa?
«No, perché sto già scrivendo un altro
libro. E poi ho degli amici carissimi. Ho fatto
di tutto per tenermeli e ci sono riuscita».
Lei ha una figlia adottiva che fa la cantante
lirica. Siete molto diverse?
«Ha una vita piena, è colta, intelligente.
Quindi credo che un po’ ci assomigliamo».
È già passata più di un’ora. L’attrice fa
una pausa: «Tra un po’ viene a trovarmi un
suo collega. Non può lasciare qualche domanda
pure a lui?».