Si chiamano Francesca tutte e due, sono giovani, belle e sanno trasmettere al pubblico un’idea altrettanto giovane e non paludata della musica classica.
La Francesca che di cognome fa Leonardi ed è pianista come il padre, a 20 anni ha le idee chiare: «Con la musica non si può bluffare. Certo, contano anche l’immagine e la promozione: ma la base è sempre la qualità. E la qualità musicale c’è eccome». L’altra Francesca, che di cognome fa Dego, ha 25 anni ed è la violinista del Duo. Non è una promessa del concertismo italiano, ma una certezza. Quando le due Francesca spiegano che suonano insieme da 10 anni, si capische che hanno iniziato da bambine: «La nostra collaborazione è nata in Conservatorio a Milano, continua la Leonardi. L’intesa è stata fantastica sin da subito. Forse l’amicizia è arrivata in un secondo momento. Ora ci vediamo sempre, anche per i viaggi, per fare shopping, andare al cinema, non solo per lavoro. In generale siamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda anche sul piano interpretativo. Del resto proveniamo dalla stessa scuola».
Una lunghezza d’onda che le ha portate ad incidere per la Dgg l’integrale delle sonate per violino e pianoforte di Beethoven. Partendo dalle sonate n. 2, 4 e dalla 9, la famosissima Kreutzer nel primo Cd. E a Francesca Dego, moglie di Daniele Rustioni, altro giovane musicista italiano che pochi giorni fa ha diretto alla Scala il verdiano Trovatore, chiediamo di raccontarci la sua storia: «Mia madre è americana di New York. Ed io ho vissuto un poco lì da piccola, visto che mio padre stava traducendo uno dei suoi libri. L’approccio che ho avuto lì nello studio dello strumento è stato decisivo. Un approccio choc, che forza molto le tappe e da un lato sveglia il bambino: ma è stato anche molto importante per me tornare in Italia e seguire un percorso di formazione più lineare».
Lei ha detto che da bambina resisteva solo 10 minuti alla concentrazione. Ora quanto studio le serve?
«Ovviamente nella vita di una concertistica ci sono tanti altri impegni, ma allo studio cerco di non dedicare meno di 3 ore al giorno. Quando sono a casa anche 5 o 6. L’importante è che sia tutti i giorni. E’ una specie di allenamento paragonabile a quello di un atleta. Dita e cervello devono funzionare insieme. Non è solo una questione romanticamente intellettuale di approfondimento. Certo, c’è anche quella dimensione».
E gli altri violinista li ascolta?
«Assolutamente sì. Quando inizio a
studiare ascolto il più grande numero di esecuzioni. Poi mano a mano
seleziono. Anche perché poi bisogna pensare con la propria testa.
L’ascolto è un’analisi e mi porta ad escludere quel che non mi piace».
A
gennaio a Santa Cecilia a Roma ha suonato nel Giorno della memoria i
violini restaurati dei campi di concentramento. Sua madre ha perso 46
parenti vicini e lontani nel campo di sterminio. Come è stata quella
esperienza di concerto?
«Molto forte. Spero sia servito a dare un
messaggio di speranza. E’ una cosa che fa parte di me, ma dovrebbe fare
parte della coscienza di tutti».
Lei è stata ad Auschwitz?
«No, non sono
stata ad Auschwitz, né io né mia madre ci state. Certo, già avere in
mano quei violini è stato sconvolgente».
Veniamo dunque al Cd, e
soprattutto al suo rapporto con Beethoven...
«Le sonate di Beethoven sono
sempre state il cardine del nostro repertorio. L’idea dell’integrale
l’avevamo da tempo. E posso dire che la Kreutzer è davvero una pagina
che abbiamo suonato centinaia di volte. Per questo desideravamo
fotografare questa nostra visione dell’opera. E devo dire che è uno di
quei capolavori che dà maggiori soddisfazioni ed emozioni quando lo si
suona in pubblico. L’abbiamo scelta come Sonata di debutto
dell’integrale. Ma i Cd saranno dei percorsi. La Kreutzer poi comincia
con una novità rivoluzionaria, inimmaginabile prima di Beethoven: un
assolo del violino. Ed è il momento che ha dato inizio a tutto il
repertorio successivo».
Tolstoj in un suo famoso romanzo breve - La
sonata Kreutzer - parla della dimensione sensuale e demoniaca del primo
tempo. Lei quando lo suona cosa avverte?
«Non sono pienamente d’accordo
con la visione di Tolstoj. C’è certamente un elemento di pazzia. Però
trovo più la dimensione eroica in questa pagina. Del resto Beethoven
attraversava quel periodo all’epoca della composizione. Però questo è
anche il bello della musica: ciascuno riesce ad avere un riscontro
soggettivo, profondo nei confronti di quello che ascolta».