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mercoledì 16 ottobre 2024
 
 

L'Iraq, la guerra, la pace e le parole di Francesco

19/08/2014 

Ha ragione Alberto Melloni sul "Corriere della sera": le parole di Francesco sulla “Terza Guerra Mondiale fatta a pezzi, a capitoli” e sulla liceità di “fermare l’aggressore” in Iraq, hanno già fatto storia,  al pari dell’inutile strage di Benedetto XV. Ma quelle di Bergoglio non sono affatto una “correzione di tiro”, come invece ironizzano sui giornali i radicali di destra nostrani, già appassionatamente favorevoli all’intervento anglo-americano in Iraq (quasi tutti con un passato di estrazione marxista, curiosa coincidenza). Costoro cercano di rovesciare la frittata e si dimenticano di ricordare che l’attuale persecuzione dei cristiani, degli sciiti, degli yazidi e degli altri popoli a sud di Mosul da parte degli jihadisti dipende proprio da quello scellerato intervento costato almeno 63 mila vittime solo tra i civili.

Fa specie poi leggere l'intervista su Repubblica di un filosofo solitamente acuto nel  commentare le vicende ecclesiali come Massimo Cacciari (che non è certo un radicale di destra, lui proprio no) e scoprire che Bergoglio ha abbandonato il concetto di "guerra giusta"
affidandosi "da gesuita" al diritto positivo internazionale, nel solco di Norberto Bobbio. Peccato che non sia vero. Verrebbe voglia, fatte le debite proporzioni, di parafrasare Renzi: #madeche? Basterebbe citare il discorso di Paolo VI sul diritto internazionale come "cammino obbligato della civiltà moderna e della pace mondiale", pronunciato al Palazzo di Vetro, che è del 1965. Per non parlare delle numerose encicliche, una per tutte la Pacem in terris di Giovanni XXIII. Dove sta il grande cambiamento di linea di Francesco? Dov'è la "correzione di tiro"? La Chiesa ha sempre invocato un'Autorità di diritto internazionale per risolvere le controversie tra Stati e mantenere un ordine globale condiviso, orientato a perpetuare, a ripristinare o a costruire la pace. Per quale altra ragione avrebbe osservatori permanenti presso le Nazioni Unite, il Consiglio d'Europa, l'Unesco, la Fao e una rete diplomatica di 102 nunzi della Santa Sede presso gran parte dei Paesi del mondo?

La guerra è un’avventura senza ritorno, aveva gridato Giovanni Paolo II. E aveva ragione, al pari di Benedetto XV che parlò di "inutile strage". Ma questo non gli aveva impedito di considerare un “intervento umanitario” in tutte quelle situazioni “che compromettono gravemente la sopravvivenza dei popoli e dei gruppi etnici” sotto l'egida di un'Autorità internazionale. Lo aveva detto alla Conferenza internazionale della Fao del 1992 e lo aveva ripetuto nel corso di altre contingenze storiche, come i sanguinosi conflitti nei Balcani e in Somalia. Invocare un intervento armato da parte dell'Autorità Internazionale (l'Onu) per fermare l'aggressore, come ha fatto Francesco, che non a caso ha preso il nome dal Santo della pace che cercò il dialogo con il sultano, si inserisce pienamente nel pensiero pacifista della Chiesa. Una Chiesa che ha sempre saputo conciliare istanze profetiche (da Erasmo da Rotterdam a don Milani) con istanze politiche (da Sant'Agostino a San Bernardo da Chiaravalle, fino ai papi moderni).

L’articolo 2309 del Catechismo della Chiesa cattolica recita testualmente: “Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale”. Naturalmente esistono condizioni ben precise per il ricorso all’uso della forza. Le elenca anche il Catechismo: “Occorre contemporaneamente: che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione”.

Gli esempi storici non mancano. Ne vogliamo citare qualcuno senza ipocrisie? Sarebbero bastati un pugno di caschi blu per evitare il genocidio in Ruanda e tante altre stragi consumate nei Balcani o nel Corno d’Africa. Il senso delle missioni internazionali italiane, dal Libano all’Afghanistan, si inserisce certamente in questo orizzonte. In certi casi non solo si può. Si deve. “Coloro che si dedicano al servizio della patria nella vita militare sono servitori della sicurezza e della libertà dei popoli. Se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono veramente al bene comune della nazione e al mantenimento della pace”, recita l’articolo successivo del Catechismo, il 2310. La legittima difesa è considerata a buon diritto “un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune”. Tutte condizioni inesistenti nel 2003, che videro una guerra preventiva che non aveva niente a che fare con un intervento umanitario e che Sant’Agostino avrebbe definito “un brigantaggio in grande stile” (De Civitate Dei, IV, 6) e invece presenti oggi in Iraq di fronte al genocidio in atto. Un intervento come quello del 2003 ha messo in scena la “legge della forza”, quello di oggi in Iraq contro la macelleria del califfato di al Baghdadi, approvato e ratificato dall’Onu, sarebbe un’operazione di polizia internazionale contro un esercito del terrore, un'operazione che metterebbe in campo “la forza della legge” e il diritto dei popoli alla sopravvivenza. Un orizzonte che risale a dottrine della teologia già espresse ai tempi di San Bernardo di Chiaravalle, di Sant’Agostino e di San Tommaso, pur se da contestualizzare rispetto ai periodi storici di questi tre grandi pensatori cristiani.

Ecco perché Francesco, informato non solo dai media ma anche dalle voci, dai racconti e dagli appelli che arrivano da quella terra,  e dal suo emissario Filoni (i massacri, le esecuzioni, l'esodo di massa di cristiani, yazidi, sciti, radicati da millenni, l'odio arrogante, cieco e brutale mostrato in mondovisione) ha invocato la legittima difesa, ma a condizioni ben precise: quelle di un intervento condiviso dall’Autorità internazionale e senza bombardamenti che possano coinvolgere civili inermi, a cominciare dai bambini (come è avvenuto e continua a da avvenire con la rottura della tregua nella striscia di Gaza). Ecco perché l’ironia sulla “correzione di tiro” è del tutto fuori luogo. Puzza di coda di paglia lontano un miglio.

 
 
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