Sosteneva di averla iscritta nei cromosomi, l’insofferenza verso la tracotanza straniera. Una volta, nel 1999, a pranzo con l'allora direttore di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino, accennò a ricerche fatte sui propri antenati. E raccontò: «Fabio Fulci aderì alla congiura di Tommaso Campanella contro il Governo spagnolo. Fu però fatto prigioniero, torturato e ucciso. Era il 1599». Siciliano di Messina, classe 1931, determinazione da vendere, una formazione culturale che contemplava anche una laurea alla Columbia University, Francesco Paolo Fulci è stato diplomatico di razza, ha guidato l'intelligence italiana in tempi difficili, e, chiamato da Michele Ferrero, è stato a lungo ai vertici della multinazionale di Alba (Cuneo). È morto il 21 gennaio: i funerali sono stati celebrati lunedì 24, a San Bellarmino,in piazza Ungheria, a Roma.
Fulci è stato a Mosca (all’epoca di Kruscev), Parigi, Tokyo, Ottawa, Bruxelles. Lì, fu ambasciatore presso la Nato tra il 1985 e il 1991: gli toccò calmare gli alleati allo scoppiare dell’affare Gladio. Chiusa la parentesi che lo vide dirigere il Cesis, il Comitato che coordina i servizi segreti italiani, tra il maggio 1991 e l'aprile 1993 (gli anni di Mani Pulite, delle stragi di mafia che uccisero Falcone e Borsellino, delle bombe a Roma e Firenze, della Falange armata) Francesco Paolo Fulci volò a New York come rappresentante permanente dell'Italia presso le Nazioni Unite.
«Il mio stile è talvolta l’antitesi della diplomazia», ammise Francesco Paolo Fulci in una delle interviste rilasciate a Famiglia Cristiana. Nel loro primo incontro, l’allora ambasciatrice all’Onu degli Stati Uniti, Madeleine Albright, si rivolse a lui con piglio deciso: «Circa la Bosnia, voi potreste... Per ciò che riguarda la Nato, voi dovreste...». «Signora», la interruppe Fulci, «lei sta parlando con l’ambasciatore della Repubblica italiana, non con un sergente dei Marines. Se ne ricordi, per favore». Tanta dignitosa fermezza centrò un obiettivo importante. Dal 1992 Germania e Giappone chiedevano di entrare in Consiglio di sicurezza, magari con diritto di veto e semmai affiancati da tre Paesi a nome dell’Africa, dell’Asia e del Sudamerica. Questa istanza era appoggiata dagli Usa, dalla Francia e dalla Gran Bretagna nonché da Nigeria, India e Brasile, ovvero dai tre Stati che pensavano di meritare l’onore di rappresentare in Consiglio di sicurezza i rispettivi continenti.
Questo gruppo di nazioni forti e influenti voleva che l’Assemblea generale approvasse l’aumento di membri permanenti accontentandosi della semplice maggioranza dei presenti e votanti. In un secondo tempo, sperava che l’Assemblea, con le stesse identiche modalità, indicasse nella Germania e nel Giappone, proprio loro, solo loro, i due Paesi degni di stare tra i Grandi. Soltanto al momento di modificare la carta costituente dell’Onu ci sarebbe voluto il "sì" dei due terzi dei Paesi membri.
L’ambasciatore Fulci riuscì a tessere una solida rete di alleanze che vanificò questo disegno: nel novembre 1998 l’Assemblea generale decise che ogni passaggio della riforma del Consiglio di sicurezza dovesse essere approvato dai due terzi degli Stati membri. «Non abbiamo vinto una battaglia procedurale ma una delicata battaglia politica», disse Fulci. «Abbiamo impedito che si rafforzasse l’oligarchia dei più forti, evitando che l’Italia fosse retrocessa in serie B e che venisse vanificata la speranza di un seggio comune per l’Europa. Ora bisogna rendere il Consiglio di sicurezza più democratico e rappresentativo».
Arrivò a quel risultato (durante il suo mandato all'Onu, a dire il vero, l'Italia vinse ben 27 elezioni su 28) grazie a idee chiare, un ferreo metodo, una squadra di collaboratori bravissimi e organizzati (celebre lo staff meeting delle 8,30, quotidiana riunione di programmazione). Alcune idee, alcune iniziative sono diventate leggendarie dentro la Farnesina e fuori, come il Coffee club, composto dai rappresentanti dei Paesi più piccoli, determinati sempre a votare per l' Italia, ciascuno col distintivo azzurro all' occhiello raffigurante un gentiluomo mentre sorseggia un espresso. O come la «Fulci rule», quando l'ambasciatore, per qualche tempo presidente di turno del Consiglio di sicurezza, costrinse i pari grado delle grandi potenze a presentarsi finalmente in orario alle riunioni. Fulci faceva in modo di conoscere i nomi di tutti i colleghi diplomatici («Quando uno viene chiamato per nome diventa meno prevenuto») e delle mogli. Mandava bigliettini per compleanni e anniversari di nozze e fiori alle signore. "Corteggiava" tutti, soprattutto gli Stati più piccoli e dimenticati, nella consapevolezza che «il voto delle Vanuatu conta quanto quello degli Stati Uniti d' America, cioè uno». La costante vigilanza degli avversari per contrastare soprattutto Germania e Giappone nel loro vano e frustrato tentativo di farsi eleggere membri permanenti del Consiglio di sicurezza lo portò anche a ricorrere a battute di ruvida ironia, come quando agli Stati Uniti disse: «Perché solo Tokyo e Berlino? Anche Roma ha perso la guerra....».
Il suo "testamento" ideale è racchiuso in una risposta affidata al nostro giornale. «L'Organizzazione delle Nazioni Unite va rottamata?», chi venne chiesto. «No. Va però radicalmente riformata partendo dal Consiglio di sicurezza e dall’ormai anacronistico diritto di veto che, anche quando non è direttamente esercitato, paralizza le decisioni. Lo si è visto per il Kosovo: le profonde divergenze tra Russia e Cina da un lato, e Usa, Francia e Gran Bretagna dall’altro, hanno alla fine portato alla delegittimazione dell’Onu». Si era ancora nello scorso millennio. Le cose, purtroppo, non sono cambiarte granchè.