L’ultima offerta di sopravvivenza
arriva a padre Frans van der
Lugt lunedì 7 aprile, trenta secondi
prima di morire. «Vieni
con noi, ti tratteremo bene»,
gli dice l’uomo con la maschera entrato
nel monastero dei Gesuiti di Homs.
«Non lascerò mai questo monastero»,
risponde il religioso olandese, e in quella
frase racconta al suo assassino il senso
di una vita intera.
Sono le sue ultime
parole, perché il sicario lo fa sedere e
poi gli spara due colpi alla testa, lì in
giardino, davanti agli occhi terrorizzati
di Mazhar.
Mazhar fa parte della comunità di
Bustan al-Diwan, quartiere cristiano da
due anni nelle mani dei ribelli: cristiano
più di nome che di fatto, visto che l’assedio
delle truppe regolari e la mancanza
di generi alimentari ha costretto quasi
tutte le famiglie alla fuga dalle bombe e
dalla fame, spingendole spesso oltre
confine. I Gesuiti no, dalla Siria non si
muovono.
E anche quando li cacciano –
come accaduto a padre Paolo
Dall’Oglio, dichiarato nel 2011 da Damasco
persona non gradita – poi rientrano.
Incuranti del prezzo da pagare. Padre
Paolo, fondatore del monastero di Deir
Mar Musa, è scomparso da quasi nove
mesi: dal giorno del suo rapimento a
Raqqa, alla fine di luglio del 2013, non se
ne hanno più notizie, e solo il silenzio
nel quale lavora la Farnesina fa sperare che possa essere ancora vivo.
La campagna denigratoria contro i
gesuiti “al servizio della Cia” è in atto
da tempo. Di padre van der Lugt – meno
esposto rispetto ad altri confratelli,
almeno fino all’appello contro l’assedio
di Homs, pubblicato a febbraio
scorso su YouTube – si commenta che
non avrebbe dovuto prendere posizione
nel conflitto, «visto che si trattava
di un ospite».
Dei Gesuiti in generale,
si spiega che farebbero meglio a stare a
casa loro, perché «non abbiamo bisogno
di gente venuta dall’estero a insegnarci
la religione».
Il gesuita padre Paolo Dall'Oglio, rapito in Siria sul finire del luglio 2013. In alto: il gesuita padre Frans van der Lugt , ucciso a Homs, in Siria, il 7 aprile.
Con le scarpe e con la zappa
E invece i
Gesuiti non si scoraggiano, fedeli alla
propria missione di uomini di frontiera.
Si calano profondamente nelle realtà
che incontrano, imparano rapidamente
la lingua, percorrono ogni strada
possibile per superare le barriere.
Padre
Van der Lugt, ad esempio, ci aveva provato
con le scarpe e con la zappa: le scarpe
di un pellegrinaggio (Masir) nato nel
1981 e aperto a tutti, nel segno del dialogo,
al di là delle fedi e delle nazionalità;
la zappa di un progetto agricolo (Al-
Ard), avviato nel 2000 sulle colline di
Homs, il cui seme più prezioso era quello
della solidarietà con una quarantina
di ragazzi disabili dei villaggi vicini.
«È questo, paradossalmente, ciò che
dà più fastidio al regime», commenta
Asmae Dachan, giornalista italo-siriana
entrata in Siria dopo l’inizio della rivoluzione:
«La scelta dei Gesuiti di non prendere
posizione dall’alto, o da lontano,
ma di condividere piuttosto la vita della
gente, di essere al fianco della popolazione
». Pastori con l'odore delle pecore, direbbe
Papa Francesco, che a settembre
aveva indetto una Giornata di preghiera
e digiuno per la pace in Siria e che
all’udienza generale di mercoledì 9 aprile
è tornato a lanciare un appello perché
si depongano le armi e ha ricordato tutti
i religiosi rapiti, cristiani e musulmani.
Proprio questo destino comune tra
uomini di pace, delle varie fedi, è ciò
che sta facendo riflettere maggiormente
i giovani di Homs, all'indomani
dell'omicidio di van der Lugt. «La morte
di padre Frans, abuna Francis – hanno
confidato alcuni di loro ad Asmae
Dachan – ci ha ricordato un’altra esecuzione:
quella dell’imam Safwan Masharqa,
ucciso sul pulpito mentre parlava
della sacralità della vita. Uccidere le guide
spirituali significa condannare alla
solitudine le persone assediate e seminare
odio e sospetto, alimentando le derive
settarie».
Ma il sangue dei martiri, diceva Tertulliano,
è il seme dei cristiani, e il sogno
di padre Frans non morirà con lui.
Già ora, tra i confratelli gesuiti, c'è chi
si è detto pronto a continuarne l'opera:
l’indiano Bimal Kerketta, da 10 anni rettore
di una scuola in Egitto, ha dichiarato
ad Asianews il proprio desiderio di trasferirsi
nel monastero di Homs, aggiungendo
di averlo già comunicato ai superiori. Per rimanervi, se necessario, fino alla fine.